Il piccolo “Trump” che vive in me
Il flusso di messaggi dei miei contatti su Facebook, la mattina in cui l’Italia si è svegliata con le notizie che rimbalzavano dagli Usa è stato un susseguirsi di post tra lo sbigottito per l’esito delle elezioni americane e l’indignato verso il popolo americano, accusato di egoismo, e di guardare troppo al proprio orticello. Molte delle critiche poi erano ovviamente incentrate su Donald Trump, che la narrazione di questi mesi ci ha mostrato nella grottesca caricatura di un personaggio che non ha perso occasione per denigrare le donne, per prendersela con gli immigrati, per annunciare la costruzioni di muri ai confini… insomma, un triste spettacolo accompagnato da toni anche molto spregevoli, misera rappresentazione di una politica e di un modo di intendere la società molto lontana dal sentire, mio e di tanti. E che per questo portava a temere un buio e triste avvenire, non solo per gli Stati Uniti.
Quando l’esito era ormai dato per assodato (e dopo aver preso atto che in termini assoluti il voto popolare avrebbe in realtà premiato Hillary Clinton), mi è venuto da chiedermi se questo senso di sconfitta dell’idea di un mondo più solidale e fraterno che l’elezione di Trump sembrava portare non aveva qualcosa da dire a me nell’immediato, da questa parte dell’oceano.
E mi è venuto da pensare a quel piccolo Trump (se con questo intendiamo la narrazione che ci è stata mostrata in questa campagna elettorale) che è in me.
Mi è venuto da chiedermi: ma davvero nessuno di noi ogni giorno non alza dei muri con chi ha accanto? E dire che non ci vuole poco, a volte basta una parola detta un po’ sopra le righe.
Davvero non facciamo vincere l'egoismo nelle nostre scelte, guardando prima al nostro orticello?
Davvero non proviamo risentimento verso qualcuno?
Davvero sappiamo accogliere il "diverso"?
Davvero in fondo in fondo non siamo un po' razzisti verso qualcosa o verso qualcuno?
E allora mi sono accorta che Trump ha vinto perché ha trovato un terreno fertile dove andare a stimolare “la pancia”.
Mi sembrava che la “vittoria del male”, a cui tanti facevano riferimento con la vittoria di Trump, fosse un grido che risuonava forte e avesse qualcosa di impellente da chiedere al mio modo di agire, di affrontare i rapporti e le sfide di tutti i giorni. Che chiedesse a me per prima di cambiare con decisione il modo di fare, per essere portatrice di una cultura più fraterna lì dove sono. Che mi chiedesse di fare attenzione al “piccolo Trump” che vive in me.
Mi sono lanciata una sfida: vedere questo avvenimento come una chiamata a ricordare ciò che io posso fare per provare ad essere migliore. Cercare di essere meno individualista, meno egoista, più accogliente delle diversità di chi mi sta accanto, meno attenta al mio ombelico, più costruttrice di ponti e meno di muri. Di lavorare con ancora più impegno ed urgenza per costruire un mondo un po’ più fraterno, partendo dalla vita di tutti i giorni e senza aspettare che questo avvenga con un decreto calato dall’alto.
Perché solo così si possono creare gli anticorpi che ci permetteranno di evitare di essere il prossimo terreno fertile per chi non aspetta altro che venire a stuzzicare la nostra pancia e alimentare l’odio, la paura, la divisione.