Il petrolio degli abissi
Pozzi in profondità: a quando la “Protezione del mare”, per evitare altre tragedie ecologiche?
Prima del disastro del Golfo del Messico, non mi ero mai chiesto come da una piattaforma galleggiante si riuscisse a raggiungere giacimenti petroliferi posti quattro chilometri sotto il fondo del mare, profondo in quel punto un chilometro e mezzo. Trivellare un pozzo del genere costa cento milioni di dollari ed è importante farlo nel posto giusto, visto che solo uno su tre risulterà produttivo: per questo i mari sono percorsi da piccole navi che lanciano intensi impulsi sonori, le cui eco rimbalzate dal fondo vengono registrate a distanza nelle varie direzioni; grandi computer poi trasformano questi echi nei disegni del complesso accavallarsi delle rocce del fondo, da cui individuare dove potrebbe essere migrato gas e petrolio.
Trovato il posto ed avendone acquisito all’asta il diritto, ci si attrezza per trivellare; un chilometro e mezzo sotto la superficie come nel caso del pozzo del disastro, il buio è assoluto e vi è una pressione di 150 atmosfere che schiaccerebbe come una lattina vuota il sottomarino più moderno: l’uomo ci può arrivare solo su batiscafi scientifici o militari che scendono anche più in basso, ma con poca autonomia.
Per operarvi sono nati i Rov (Remotely Operated Vehicle), robot guidati via filo dalla superficie, dotati di luci, telecamere e braccia meccaniche. Per trivellare un pozzo profondo, inoltre, servono piattaforme "semi-sommergibili", che aziende del settore (in Italia la Saipem) affittano, per un milione di dollari al giorno. Quando viene rimorchiata sul posto, la piattaforma svetta altissima, poi il suo basamento galleggiante viene fatto affondare in modo che la piccola città costruita in alto rimanga venti metri sopra le onde.
Si inizia piantando un tubo di 70 metri e 90 cm di diametro nel fondo, con getti d’acqua in pressione se il fondo è fangoso, altrimenti con un grande peso di metallo che viene innalzato sul tubo con martinetti idraulici, per poi lasciarlo cadere su di esso.
Con l’aiuto dei Rov, poi, si cala sul tubo piantato il Bop (Blow Out Preventer) detto anche “albero di Natale” per la sua forma con molti bracci, un insieme di valvole di sicurezza alto dodici metri.
Sopra il Bop si collega il Riser il tubo principale che collega il pozzo alla piattaforma: da questa si cala in esso una trivella con tre coni rotanti; il fango risale assieme ai detriti all’interno del Riser fino in superficie.
La trivella perfora il fondo per 300 metri, quindi nel foro si cala un tubo di diametro inferiore al foro, ed in esso viene pompato cemento liquido, seguito da fango, in modo che il cemento sia spinto fino in fondo e fatto risalire all’esterno del tubo, per riempire l’intercapedine tra tubo e roccia.
Diventato solido, il cemento mette in grado il pozzo di sopportare le enormi pressioni a cui sarà soggetto: anche mille atmosfere!
Solidificatosi il primo tratto, si ripete il procedimento con tubi sempre più stretti. Alla fine nel condotto si cala il tubo che convoglierà il petrolio fino al fondo del mare e se ne cementa l’esterno per il tratto finale.
Quando si arriva nelle rocce porose che contengono gas e petrolio, è come forare con un trapano un serbatoio in pressione: finché il petrolio non comincia a fluire regolarmente in superficie attraverso le tubature, le valvole del Bop sul fondo del mare sono come un tappo che non deve assolutamente saltare.
Al giacimento Macondo, però, in quel momento qualcosa è andato storto: prima che il Riser fosse scollegato, il gas è arrivato in piattaforma e ha scatenato un incendio che ha ucciso undici operatori: dopo tre giorni la piattaforma affondava spezzando in profondità il Riser.
Perché in quei tre giorni non si è riusciti a far chiudere le valvole del Bop? I sistemi disponibili erano molti, ma il tutto deve essere azionato: dalla piattaforma nel fuoco non si è evidentemente riusciti a farlo, e neppure nei giorni successivi i Rov sono riusciti ad azionare il quadro di comando posto sul fondo.
Dopo vari tentativi si è riusciti infine a scollegare il Riser e a collegare al suo posto un nuovo Bop, collegato con un nuovo Riser con la superficie.
Il risultato è stato che si è scaricato nel Golfo del Messico tanto petrolio quanto ne sta in tre super petroliere, a cui si sono aggiunte le migliaia di tonnellate di solventi scaricate in mare per non rendere visibile il petrolio in superficie, prodotti chimici che a mio parere avranno un impatto ambientale molto peggiore del petrolio.
Che concludere? Certo, sarebbe meglio poter vivere senza petrolio, ma il mondo di oggi, malgrado i sempre più evidenti risvolti negativi dell’effetto serra, non sembra ancora pronto per questo, visto che continua a basare una parte importante del suo sviluppo economico sulla produzione di automobili.
Intanto molti dei giacimenti sono prossimi all’esaurimento e il nuovo petrolio si trova solo in territori difficili o in mari profondi; se ne è trovato molto al largo del Brasile, dell’Africa Occidentale e nel Golfo del Messico, si vorrebbe perforare anche l’Artico e il Mediterraneo al largo dell’Egitto, della Libia e della Tunisia.
Se un incidente simile avvenisse nel Mediterraneo o, peggio, nel mar Caspio, dove si sta già trivellando anche nel profondo, le conseguenze sarebbero tragiche e durerebbero decenni: la natura per fortuna riesce comunque infatti prima o poi a trovare rimedio, lo si è visto in Liguria, davanti alle cui coste anni fa è affondata incendiandosi una super petroliera carica di petrolio, che adesso fa parte del fondo marino, ricoperta di alghe: solo in caso di prodotti radioattivi gli effetti durano migliaia di anni, e questo non va dimenticato, pensando alla opzione nucleare.
Se non si vuole in pratica abbandonare il petrolio, bisogna allora attrezzarsi, e rapidamente: che oggi non si sia in grado di provvedere efficacemente a incidenti in pozzi profondi lo ha dimostrato in questi mesi la prima potenza del mondo.
Per operare a quelle profondità, cosa che si sta facendo quasi ovunque, in sicurezza, occorre a mio parere attrezzarsi con mezzi pesanti capaci di portare a quelle profondità anche l’essere umano. Non bastano più robot operati a distanza.
Si dovrebbe quindi obbligare le aziende che vogliono operare nei mari profondi ad impegnarsi a costruire un certo numero di mezzi pesanti adeguati, da tenere a disposizione di tutti nelle diverse aree del mondo: come fa la Protezione civile per i mezzi antincendio e le catastrofi naturali, occorre una Protezione del mare.
Con i venti miliardi di dollari che la Bp ha dovuto sborsare per riparare i danni, si sarebbero certamente potuti costruire tutti i mezzi necessari: occorre però che le istituzioni a livello mondiale costringano gli operatori ad impegnarsi in tempi brevi, anche se sappiamo che poi il tutto si trasformerà in un aumento del prezzo della benzina.