Il peso della storia nel conflitto in Terra Santa, intervista a Lorenzo Kamel
L’area del Medio Oriente, che ci ostiniamo a chiamare Terra Santa, è un luogo conteso dove si consumano immani sofferenze, alimentate da narrazioni storiche contrapposte. Parliamo di uno dei possibili inneschi di un conflitto mondiale ormai apertamente entrato nel dibattito pubblico.
Terra contesa, è un testo importante per cercare di capire il nodo di Israele, Palestina e il peso della storia, come recita il sottotitolo del libro, pubblicato dalle edizioni Carocci, scritto da Lorenzo Kamel, docente di Storia globale e Storia del Medio Oriente e del Nord Africa all’Università di Torino.
Nei suoi numerosi interventi sui media, il professor Kamel si distingue per la conoscenza approfondita della materia, maturata dalla permanenza in Israele dove ha conseguito anche un master biennale in Israel Studies alla Hebrew University, e in Palestina, dove ha trascorso un anno all’Università Birzeit. Kamel, tra l’altro ha insegnato e condotto ricerche in università italiane ed estere, tra cui l’Università di Harvard, la Albert-Ludwigs-Universität Freiburg e l’Università Ayn Shams del Cairo. Lo ringraziamo, perciò, per la disponibilità concessa a questa lunga intervista.
Partiamo dalla tragedia di quanto sta avvenendo sulla Striscia di Gaza con l’avanzata dell’esercito israeliano sotto il comando del governo Netanyahu. È possibile parlare dei crimini in corso a Gaza senza partire da quelli compiuti lo scorso 7 ottobre?
I crimini di tutte le parti in causa richiedono una ferma condanna. Ciò premesso, se per discutere di ciò che sta avvenendo a Gaza si deve al contempo necessariamente parlare dei crimini compiuti da Hamas il 7 ottobre, ne deve conseguire che per discutere dei crimini del 7 ottobre sia necessario al contempo parlare del contesto vissuto dalla “controparte”. Ad esempio della pluridecennale occupazione dei territori palestinesi, del fatto che tra l’1 gennaio 2008 e il 6 ottobre 2023 sono stati uccisi 6407 palestinesi e 308 israeliani, delle migliaia di palestinesi che sono detenuti nelle carceri israeliane senza accuse né processi, del “pogrom di Huwara” del febbraio 2023, oppure, tra molto altro, dei dati ufficiali forniti dall’Unicef, che in data 18 settembre 2023 sottolineava che i primi 9 mesi dello scorso anno erano stati quelli con il maggior numero di bambini palestinesi uccisi nella Cisgiordania occupata, quantomeno da quando l’Unicef stessa ha iniziato a registrare questo tipo di dati.
Quindi cosa si può dire in sintesi?
Che il contesto o vale sempre – e penso sia l’opzione auspicabile – o non vale mai. Studiarlo non deve mai essere inteso come un modo per condonare crimini e violenze, bensì come uno strumento per andare alle radici delle questioni. Queste ultime, senza esperienza diretta sul campo e mancanza di competenze linguistiche e di carattere storico, appaiono sovente sfocate e si prestano a letture ideologiche.
Il procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi) Karim Kahn ha di recente chiesto che i giudici emettano mandati di arresto internazionale per Netanyahu, Gallant e 3 leader di Hamas. La corte ha giurisdizione in materia?
La Palestina è diventata ufficialmente uno stato membro dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale (Cpi) nel 2015. Non esiste dunque alcun dubbio che la Corte abbia giurisdizione in relazione a quanto sta avvenendo a Gaza e in Cisgiordania. La Corte penale internazionale interviene quando i sistemi nazionali non vogliono o non riescono a farlo: è possibile che una figura come Benjamin Netanyahu venga incriminata dai tribunali israeliani per questioni legate alla corruzione ma, anche alla luce della storia degli ultimi decenni, c’è un consenso piuttosto diffuso riguardo il fatto che nessuna corte israeliana lo stia indagando – o lo indagherebbe – in modo oggettivo per ciò che sta avvenendo, o per ciò che è avvenuto in anni passati, a Gaza o in Cisgiordania. Si noti, per inciso, che, stando a dati ufficiali forniti dall’organizzazione israeliana per i diritti umani Yesh Din (“C’è giustizia”), la probabilità che una denuncia per danni arrecati a un palestinese da parte di un soldato israeliano si concluda con una condanna è pari allo 0,87%.
C’è chi afferma che la Corte Penale Internazionale sia schierata preventivamente…
La Corte Penale Internazionale è composta da tecnici di levatura mondiale che ragionano sulla base del diritto: si tratta di un panel di esperti composto da figure come il giudice israeliano Theodor Meron, un sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti.
Nel 2002, l’allora presidente George Bush firmò un disegno di legge bipartisan – cosiddetto The Hague Invasion Act – che autorizzava gli Stati Uniti a usare la forza per liberare qualsiasi membro del personale statunitense o alleato – dunque afferente a un paese membro della NATO, o a stati alleati/allineati come l’Australia, la Nuova Zelanda, il Giappone, l’Egitto, Israele, la Giordania, l’Argentina e la Repubblica di Corea – accusato di crimini di guerra. Giovanni Giolitti era solito sostenere che «per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano». Ritengo che ciò sia parte del problema e non di una possibile soluzione. Quest’ultima, a mio avviso, ha invece più a che vedere con quanto scrisse il celebre abolizionista americano Frederick Douglass: «Il potere non concede nulla senza che gli venga richiesto. Non l’ha mai fatto e mai lo farà».
I numerosi conflitti che hanno segnato la storia di Israele e la sua progressiva espansione sono stati originati dall’ostilità dei Paesi arabi sconfitti dalla capacità militare di Tel Aviv sostenuta dagli Usa. Come si spiega la debolezza di una fronte arabo finanziato un tempo dai sovietici e ora comunque tra i maggiori importatori di armi su scala planetaria?
Asher Ginsberg, uno dei pensatori più influenti del sionismo, arrivò in Palestina nel 1891, che contava al tempo una popolazione composta per il 92% da palestinesi, sia musulmani che cristiani. Al termine della sua esperienza in loco, Ginsberg scrisse un articolo intitolato Emet me-Eretz Ysrael (La verità dalla Terra d’Israele): «Essi [Ginsberg si riferiva ai nuovi coloni che stavano arrivando dall’Europa] trattano gli arabi con ostilità e crudeltà, li picchiano vergognosamente senza alcuna ragione sufficiente, e addirittura si vantano delle proprie azioni. Non c’è nessuno che possa fermare questa tendenza spregevole e pericolosa». Utilizzo l’esempio della testimonianza di Ginsberg per ricordarci che ricondurre le radici di numerosi conflitti all’“ostilità dei Paesi arabi sconfitti” ignora troppa storia per poter essere considerata una tesi esaustiva. Ciò premesso, i regimi locali non rappresentano i loro popoli e costituiscono una calamità per questi ultimi.
Vengono tuttavia percepiti da numerosi Paesi, anche occidentali, come parte della ‘soluzione’ e non del problema. Per citare quanto riferito nel 2015 da un ex generale israeliano all’ex ambasciatore israeliano a Washington Michael Oren, «Why won’t Americans face the truth? To defend Western freedom, they must preserve Middle Eastern tyranny» («Perché gli americani non affrontano la verità? Per difendere la libertà occidentale, devono preservare la tirannia mediorientale»).
Cosa comporta questo stato di cose nelle relazioni con tali Paesi?
Comporta il fatto che le ‘tirannie’ locali, sovente sostenute anche militarmente dai nostri Paesi, non solo sono ricattabili ma anche disposte a pagare un prezzo salato pur di veder garantita la propria sopravvivenza. Se un Paese come l’Egitto, per fare un esempio, fosse riuscito a proseguire il suo iter democratico, al netto della completa inadeguatezza dell’ex presidente Mohamed Morsi, l’effetto domino sarebbe stato devastante per tutti i regimi della regione. Agli occhi di molti, anche alle nostre latitudini, era importante che ciò non avvenisse.
Quanto avvenuto finora, fino ai cosiddetti “accordi di Abramo” del 2020, non è, in fondo, che l’applicazione della linea del “muro di ferro” teorizzata nel 1923 da Jabotinsky (fondatore del sionismo revisionista, creatore della Legione ebraica, ndr) secondo il quale «finché gli arabi avranno un barlume di speranza di avere successo nel liberarsi di noi, niente al mondo li potrà spingere a rinunciare a tale speranza proprio perché non sono plebaglia ma un vero popolo»?
Per risponderle mi lasci partire dalle parole pronunciate il 19 marzo 2022 dal ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich. Quel giorno arrivò a Parigi per commemorare Jacques Kupfer, un esponente della destra israeliana: «Non si può parlare di ‘palestinesi’ perché non esiste un ‘popolo palestinese’», sottolineò per l’occasione Smotrich mostrando una mappa del “grande Israele” che, oltre a cancellare ogni traccia della Palestina storica, includeva anche la Giordania e la Cisgiordania.
Per ironia della sorte Smotrich, nato nel 1980 ad Haspin – nelle alture del Golan occupate – e cresciuto a Beit El – un insediamento vicino a Ramallah costruito nel 1977 –, tenne quel discorso proprio accanto a una foto di Jabotinsky, il quale nel novembre 1923 pronunciò le seguenti parole a proposito del “popolo inventato”: «Non ci può essere alcun accordo volontario tra noi e gli arabi palestinesi, è assolutamente impossibile ottenere il consenso volontario degli arabi palestinesi per trasformare la ‘Palestina’ dall’essere un paese arabo a diventare un paese a maggioranza ebraica. Tutte le popolazioni indigene, civilizzate o meno, hanno sempre resistito ostinatamente all’arrivo di coloni».
Le parole di Jabotinsky ci ricordano che gli oltranzisti di un secolo fa non avevano problemi a riconoscere l’esistenza dei palestinesi, né quella di ciò che essi chiamavano da molti secoli Palestina. Ci ricordano anche che l’obiettivo di “liberarsi degli altri” non può in alcun modo essere attribuito solo a una delle due parti in causa, a maggior ragione alla luce della storia recente e passata. Gli oltranzismi di entrambe le parti si alimentano gli uni degli altri.
L’inamovibilità dei coloni israeliani nei territori occupati palestinesi comporta, di fatto, la fine della possibilità di riconoscere i due stati, israeliano e palestinese?
Non è l’unico impedimento ma è evidente che negli ultimi decenni le autorità israeliane abbiano attuato una serie di strategie volte ad “annacquare” i confini – o “linee di separazione” – tra Israele e il territorio occupato palestinese, promuovendo al contempo politiche mirate a imporre la propria supremazia nell’area compresa tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Un processo imposto attraverso l’uso selettivo della religione, della storia e del diritto internazionale, nonché tramite narrazioni fuorvianti che equiparano i palestinesi con cittadinanza israeliana ai coloni insediatisi in anni recenti nel cuore dei territori palestinesi. L’ascesa al potere dei coloni e dell’estrema destra israeliana è il risultato di tali politiche, oltre che dei molteplici errori compiuti dalle leadership palestinesi.
Il perdurare del conflitto può condurre all’egemonia di Hamas tra i palestinesi e, quindi, al permanere del timore dell’esistenza stessa di Israele esposta al trauma del 7 ottobre?
L’attentato del 7 ottobre rappresenta una cicatrice indelebile per Israele e un’onta incancellabile per chi lo ha compiuto. Ciò premesso, il 51% della popolazione della Striscia ha meno di 16 anni: quando Hamas vinse le elezioni, nel 2006, più della metà degli abitanti non era neanche nata.
In quelle elezioni Hamas prese il 45% dei voti in Cisgiordania e nella striscia di Gaza. E ci riuscì in primo luogo in quanto si presentò come l’alternativa ad al-Fatah, ritenuta, non a torto, profondamente corrotta.
Inoltre, tra fine settembre e 6 ottobre 2023, un sondaggio di Arab Barometer in Cisgiordania e Gaza mostra che solo il 29% degli abitanti della Striscia sosteneva Hamas. La larga maggioranza degli interpellati criticava in modo netto la leadership inaffidabile e le condizioni di povertà dovute anche alle politiche di Hamas. Non solo: una maggioranza altrettanto ampia si era espressa a favore dell’autodeterminazione di entrambi i popoli e contro le ideologie promosse da Hamas.
Dal sondaggio emergeva dunque un chiaro e ampio rigetto legato ad Hamas, che oggi ovviamente non è possibile verificare con sondaggi o elezioni. Il celebre generale israeliano Moshe Dayan sottolineò che «Se vuoi fare la pace non parli con gli amici, bensì con i nemici». Gruppi paramilitari come l’Irgun, guidato da Menachem Begin, e la Banda Stern, capeggiata da Yitzhak Shamir, si macchiarono di crimini orrendi, colpendo anche molti obiettivi civili palestinesi. Entrambi diventarono in seguito primi ministri dello Stato di Israele. Agli occhi dei palestinesi, ancora oggi il governo israeliano viene visto e vissuto come un occupante permanente, che rifiuta esplicitamente l’autodeterminazione palestinese ed è accusato di crimini di guerra. E torniamo alle parole di Dayan, che valgono tanto per i palestinesi quanto per gli israeliani.
Cosa unisce ciò che sta avvenendo a Gaza con la situazione in Ucraina?Oltre alla devastazione e all’enorme peso delle popolazioni civili locali, a Gaza come in Ucraina, stiamo assistendo a un ‘conflitto faglia’, con risvolti globali e ramificazioni visibili a Taiwan, nel Mar Rosso e in molteplici altri contesti. È un mondo che sta cambiando e che non può essere compreso con facili dicotomie: “Occidente democratico” versus “dispotismi”. Non c’è dubbio che quelli che taluni chiamano “i valori dell’Occidente” garantiscano tangibili e reali diritti e benefici ai cittadini di larga parte del Nord America e dell’Europa, sebbene numerose minoranze etniche e/o religiose, nonché alcune fasce sociali, risultino strutturalmente discriminate e/o poco tutelate.
Parliamo comunque di una piccola percentuale della popolazione mondiale, circa il 16% del totale. Agli occhi di una larga percentuale del resto del mondo, i “valori dell’Occidente” e il sistema delle relazioni internazionali guidato dagli Stati Uniti non portano alcun beneficio. Al contrario, in tali contesti il cliché dell’Occidente democratico continua sovente a declinarsi in invasioni (non di rado attuate per difendere specifiche “sfere d’influenza”), commercio di armi (oltre il 70% delle armi mondiali viene prodotto da Paesi occidentali), sfruttamento delle materie prime (si veda, tra decine di altri esempi, il caso della Repubblica Democratica del Congo), inquinamento (un Paese come lo Sri Lanka, la cui aspettativa di vita è molto simile a quella degli Stati Uniti, utilizza circa l’88% in meno di risorse rispetto agli Stati Uniti ed emette circa il 94% in meno di emissioni su base pro capite) e sanzioni (che colpiscono i civili e quasi mai i regimi considerati “sgraditi” all’Occidente).
È possibile ipotizzare la fine della guerra in Ucraina, o quella a Gaza, senza vincitori né vinti?
La storia, anche di quest’ultimo secolo, mostra numerosi esempi di guerre conclusesi senza vincitori e vinti: basterebbe citare la guerra di Russo-Giapponese del 1904, la Corea nel 1953, il Vietnam nel 1975. E ancora, le Falkland nel 1982, la guerra Iran-Iraq del 1988 e quella in Bosnia nel 1995. La storia ci suggerisce molti altri innumerevoli conflitti congelati. L’idea di guerra totale, fino alla resa “senza condizioni”, è un prodotto proprio della tragica storia delle guerre mondiali, quelle che hanno causato il maggior numero di morti nella storia dell’umanità.
Fatta questa premessa, mi piace risponderle partendo da una data e da una studiosa. La data è il 1989 e la studiosa è la sociologa statunitense Janet Abu-Lughod, la quale predisse quell’anno che l’epoca dell’egemonia occidentale sarebbe stata sostituita dal ritorno a un «relativo equilibrio tra molteplici centri di potere, come accaduto nel sistema mondiale del XIII secolo».
È ancora presto per tracciare un bilancio definitivo su queste parole, appare tuttavia probabile che le future generazioni indicheranno la guerra russo-ucraina, il conflitto-faglia a Gaza, e la situazione a Hong Kong e Taiwan, come un momento significativo nel processo storico che da tempo vede un progressivo slittamento degli equilibri di potere da Occidente verso Oriente.
Cosa comporta, a suo parere, questa fase della storia mondiale?
I processi di riequilibrio nei rapporti di forza globali sono da sempre accompagnati da annose violenze: il nostro tragico presente è in questo senso destinato a protrarsi nel tempo.
Esistono tuttavia alcune evidenti differenze rispetto alle epoche passate. A cominciare dalla crescita esponenziale della popolazione mondiale, – raddoppiata tra il 1969 e il 2012 –, passando per i cambiamenti climatici, l’impoverimento della biodiversità e gli stravolgimenti degli habitat naturali.
Ad oggi, tuttavia, la questione climatica non sembra dettare l’agenda degli ordini globali. A fare la differenza continuano infatti ad essere le “sfere di influenza”, o, più precisamente, ciò che Amitai Etzioni (sociologo israelo-americano di origine tedesca, sostenitore del comunitarismo, ndr) ha definito «assetti internazionali includenti uno Stato che esercita un potere superiore sugli altri».
Finora il caso più eclatante resta quello degli Usa…
Nel caso di una potenza come gli Stati Uniti, che può contare su oltre 750 basi militari in 80 Paesi del mondo – l’85% del totale delle basi militari fuori dai confini di un Paese –, la sfera di influenza si estende molto al di là del proprio continente di riferimento. Non pochi degli stati e dei leader politici africani e asiatici che negli ultimi decenni hanno provato a ostacolare tale ascendenza sono stati infatti attaccati militarmente e defenestrati, o isolati e boicottati. È un copione che si è ripetuto in maniera costante, alimentandosi sovente di slogan che, in forme diverse e sovente sovrapponibili, parlano alla pancia – e dunque agli istinti – di milioni di persone: «È la battaglia tra il bene e il male», «ci odiano per i nostri valori», o ancora, mutatis mutandis, «siamo di fronte alla fine della storia».
Eppure, oltre a sottolineare l’importanza di condannare in modo fermo ogni aggressione contro un qualsiasi popolo o Stato – sia esso l’Ucraina, l’Iraq o lo Yemen –, è necessario rifiutare la legittimità di tutte le sfere di influenza, tanto le “nostre” quanto quelle degli “altri”, chiunque siano i nostri “altri”.
Come Città Nuova cerchiamo di dare spazio alla società civile israelopalestinese attiva per la pace come l’Alliance for Middle East Peace. Dalla sua esperienza ci sono motivi per veder crescere questi movimenti attivi in controtendenza?
Nel 2011 pubblicai un libro intitolato L’Alternativa. Ho trascorso 5 anni a studiare iniziative dal basso promosse da organizzazioni e privati israeliani e palestinesi finalizzate a trovare delle alternative. Ai giorni nostri gli strumenti idonei per affrontare problematiche di tale portata, ovvero i processi di pace promossi dall’alto, mostrano tutti i loro limiti. In un tale contesto le iniziative dal basso devono necessariamente ridimensionare i loro obiettivi. Da sole esse sono infatti impossibilitate a raggiungere una riconciliazione sostenibile. Hanno quindi il compito di battersi affinché venga mantenuta una propensione a instaurare reciproche interazioni tra quanti hanno davvero a cuore la pace. Devono preparare il terreno per dei progetti embrionali che potranno poi essere sviluppati nel momento in cui avverrà una sincronizzazione tra le iniziative dall’alto e quelle dal basso. Sforzi concreti perseguiti senza abbandonarsi a evanescenti teorizzazioni filosofiche, bensì “sporcandosi le mani” sul campo, con l’obiettivo di trasformare la paura in comprensione reciproca. Nonostante tutto, la risposta alla sua domanda non può dunque essere altro che positiva.