Il pesce, il cous cous e gli immigrati

I lampedusani rispondono all’emergenza con la concretezza della gente di mare, avvezza alle avversità. Non mancano i disagi
Lampedusa

Aveva nel frigo della stiva più di 300 chili di pesce pronti per essere spediti sul "continente", come dicono qui. Quando però ha attraccato sulla banchina, il capitano del peschereccio La Graziella non ha resistito e ha cominciato a regalare cassetta dopo cassetta tutto il suo pescato ai giovani tunisini assiepati davanti al porto. Per tutta la sera falò improvvisati sugli scogli cuocevano pesce, mentre un «grazie Lampedusa», veniva rivolto coralmente a ciascun passante da questi nuovi concittadini.

 

In piazza invece ci sono i pentoloni di cous cous che alcune famiglie distribuiscono ad una fila ordinata e affamata di giovani tunisini. A pranzo c’è un ristorante che offre un primo, perché il cibo non è sufficiente. Viene distribuito al centro di accoglienza, all’area marina protetta e anche alla casa della fraternità, messa a disposizione dalla parrocchia, ma continua a non bastare. Tutti gli altri tremila, tagliati fuori, si arrangiano alla meno peggio.

 

Un acquazzone imprevisto ha inzuppato gli immigrati che vivono in strada e sono migliaia. Necessitano di vestiti, scarpe, biancheria pulita, coperte. Qui entra in azione la comunità cristiana che risponde generosamente svuotando gli armadi e coinvolgendo anche ad Agrigento amici e conoscenti per approntare un furgone da imbarcare sulla nave in partenza da Porto Empedocle. Il furgone è sbarcato ieri sera, quasi in contemporanea all’imbarco dei primi mille che raggiungeranno i centri d’accoglienza nel resto della Penisola.

 

Il piccolo ufficio parrocchiale approntato per l’emergenza non è sufficiente e un negoziante mette a disposizione il suo esercizio. Le immagini sono state riprese dalle tv via cavo e web: file in attesa, file interminabili, quasi l’occupazione principale per queste migliaia di scampati alla morte e alla disperazione dei propri paesi.

 

La convivenza però ha delle criticità: gli scassi alle abitazioni disabitate e alle cabine delle barche in secca. Servono servizi igienici e docce e dopo quattro o cinque giorni in strada non si può più resistere. Alcuni lampedusani li giustificano: «Poveretti non hanno altre possibilità, la situazione è insostenibile». Altri abitanti dell’isola sono ben decisi alla denuncia: «Non possiamo continuare così, non possiamo arrivare ad un’emergenza sanitaria e allo scontro sociale».

 

«Qui non ci sono né diritti nè dignità, – è il duro commento di Giusi Nicolini della locale sezione di Legambiente –, l’isola finora ha resistito con dignità e solidarietà, ma non si può scaricare tutto sugli abitanti, non si può continuare a vivere nell’emergenza». Serpeggia il timore di veder trasformata l’isola in un carcere a cielo aperto, mentre la stagione primaverile risulta definitivamente compromessa per albergatori e ristoratori.

 

Oggi cielo e mare quasi non si distinguono: la bonaccia incoraggerà nuovi arrivi. E stavolta non si tratta di carrette, ma di veri e proprio barconi che riverseranno su questo scoglio, di appena venti chilometri quadrati, nuovi profughi.

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