Il perdono di Carlo

Tre anni fa l'agghiacciante strage di Erba dove perdono la vita quattro persone tra cui la moglie, la figlia e il nipotino del signor Castagna
Carlo Castagna

Stazione di Erba, a metà strada tra Lecco e Como. Siamo in Brianza, a 20 chilometri dalla Svizzera. L’inverno ancora non punge. Nelle catene montuose prealpine che circondano la valle non si notano ancora cime imbiancate dalla neve e il cielo è terso, di un azzurro intenso. Il signor Carlo Castagna mi attende sulla banchina del binario 1, con il suo borsalino e un sorriso accogliente. Non sembra l’uomo che, esattamente tre anni fa, era l’11 dicembre del 2006, ha vissuto «uno dei crimini più atroci della storia d’Italia»: sua moglie Paola, 57 anni, sua figlia Raffaella, 30 anni, e il nipotino Youssef, 2 anni e tre mesi, vengono sgozzati da Olindo Romano e Rosa Bazzi, per futili liti di condominio. Per caso fu uccisa anche la vicina Valeria Cherubini. Una strage agghiacciante, pianificata con lucidità da almeno tre mesi, e compiuta con una violenza terrificante, a colpi di spranga e coltelli.

Carlo Castagna, 65 anni, titolare insieme ai figli di un’azienda che si occupa di progettazione e produzione di arredamenti, mi conduce in una stanza accanto allo studio del suo ufficio, tra la fabbrica e il suo appartamento: casa e bottega. È un uomo coriaceo, forte, il suo percorso di fede, maturato nella battaglia quotidiana della vita, lo ha condotto a fare una scelta controcorrente, non compresa da molti, anche cristiani. Trovatosi di fronte ad un bivio, ha imboccato la scelta del perdono. «Mia moglie e io – racconta – avevamo sempre in mente una frase scritta sulla facciata di una chiesa di un paese vicino Erba, riferita alla croce: “Se mi accogli ti sorreggo, se mi rifiuti ti schiaccio”. Il perdono non è frutto del buonismo, né della mia bravura: è un dono che Dio ci dà perché la vita possa ricominciare».

All’inizio, è comprensibile, Carlo Castagna, fatica a parlare, come una macchina che deve oliare il motore dei ricordi, ma poi non si ferma per un’ora e mezza, come se nella memoria, nella condivisione, rivivessero i suoi cari e potessero rientrare a casa da un momento all’altro, e sostare con noi, almeno un po’. Per bere un caffè.

 

A tre anni dalla scomparsa dei suoi cari, come vive?

«Ogni giorno vivo la loro dipartita e la loro presenza, non devo aspettare l’anniversario. È chiaro che in quei giorni ricordo ogni particolare di come abbiamo vissuto i giorni precedenti, la preparazione del Natale, i presepi, ne abbiamo cinque, e poi ogni dettaglio degli ultimi minuti di Paola. L’11 dicembre alle 20,05 avverto un brivido, il brivido della morte, della dipartita. Poi la vita continua con la certezza che loro mi sono sempre vicini. Quando entro nella mia stanza penso che Paola sia accanto a me, partecipi alle mie preghiere».

 

Com’è il suo rapporto con Paola?

«Il mio rapporto con lei è rimasto lo stesso, quello di sempre. Le nostre preoccupazioni erano vissute all’unisono, c’era un vivere quotidiano facendosi carico reciprocamente dei pesi gli uni degli altri. Anche oggi mi incoraggia, mi aiuta e mi segue. Sto vivendo come se loro, Paola, Raffaella, Youssef, mi aspettassero in qualche luogo. È un dolore ogni tanto vedere delle coppie della mia età passeggiare a braccetto, ma ce la faccio, se Dio mi aiuta. Anche la solitudine può essere beata, se vissuta cristianamente».

 

Perché ha scelto di perdonare gli assassini?

«Non c’è alternativa a questo percorso. In qualunque situazione si possa trovare, un cristiano deve opporre alla radicalità del male la radicalità del bene; anche in una situazione tragica come la mia che mi ha sconvolto l’esistenza. Come siamo amati da Dio, così dobbiamo amare anche i nostri nemici. “Che meriti avresti – dice il Vangelo – se ami solo color che ti amano?”. Paola mi ha aiutato “dai piani alti” con il suo sacrificio, con la sua “commorienza”: è morta insieme alla figlia e il nipotino, sono spirati tutti nel giro di pochi secondi. E senza l’aiuto di Dio e la preghiera non ce l’avrei mai fatta».

 

Come ha reagito quando ha saputo la notizia?

«Ho avuto una forza non mia, la grazia di accettare. Non sono impazzito dal dolore perché mi piace pensare che Paola, conoscendomi, si era premurata appena arrivata “nei piani alti” di entrare nell’ufficio del “capo” e di intercedere per me, perché sapeva che avrei anche potuto imboccare un altro percorso, di odio, di sangue. Questa visione semplice, da bambino, mi fa, ancora oggi, vedere le cose in modo sereno».

 

Come trascorre le sue giornate?

«Alle 7,15 esco di casa e vado in parrocchia dove recito le lodi e partecipo alla Messa. Alle 9 rientro in azienda, saluto i miei collaboratori in laboratori, chiedo come stanno, mi interesso delle loro famiglie, della loro salute. E poi lavoro nel mio ufficio e collaboro con i miei due figli. Tutte le sere vengono i miei nipoti a trovarmi, abitano accanto a me, gioco con loro, mi fanno tanti disegni che appendo nel tinello. E poi, mi è capitato qualche volta, vado in giro nelle parrocchie, nelle scuole, in tutta Italia, per raccontare la mia esperienza. Quando comincio a parlare non so mai cosa dire; una volta cominciato, non so mai quando finisco. In queste occasioni, sento la presenza di Paola particolarmente vicina».

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