Il pensiero che rovescia il mondo

La pretesa dell’economia civile. Intervista a Francesca Dal Degan, curatrice della riedizione delle lezioni di Antonio Genovesi
Proteste per il lavoro

Non lasciatevi ingannare dalla forma. Il dibattito su economia e felicità non è una questione marginale o di dettaglio. Basta leggere la voce del dizionario della Treccani online affidata a Luigino Bruni o il blog di Leonardo Becchetti, intitolato “Felicità sostenibile”, per comprendere la realtà profondamente “sovversiva” di una scuola di pensiero ormai diffusa ed estesa che mira ad un rovesciamento radicale di quell’impostazione finora dominante in economia che ci sta conducendo all’implosione. Bisogna fare presto. Ma non andremo molto lontano se non cambia l’idea di essere umano che guida la teoria nascosta dentro i numeri. La disoccupazione endemica o le tragedie come l’Eternit di Casale Monferrato e l’Ilva di Taranto hanno queste radici.

Per cercare, quindi, di capire la realtà di un dibattito con risvolti concretissimi abbiamo posto alcune domande a Francesca Dal Degan, ricercatrice di economia all’università di Losanna in Svizzera e docente all’istituto Sophia di Loppiano, che ha curato, per Vita e pensiero, la riedizione delle Lezioni di economia civile di Antonio Genovesi. Dal Degan è tra gli organizzatori del seminario che si è svolto a Roma il 4 e 5 giugno nelle aule delle università Lumsa e Angelicum. Titolo e relazioni rigorosamente in lingua inglese (“Public Happiness") per argomenti dalle saldi radici mediterranee, come sta a dimostrare la fecondità della scuola di pensiero dell’economia civile italiana che ha sempre ribadito che «la felicità è pubblica o non è».

Come si fa a ipotizzare un discorso nuovo su economia e felicità in un Paese, come il nostro, che sembra sotto attacco con un bollettino di guerra che annuncia licenziamenti e cadute nella povertà?
«Ricomporre una diversa visione dell’economia non è un’operazione fine a sé stessa e lo dimostra per esempio l’iniziativa intrapresa dall’Istat per elaborare la misura del Bes, il benessere equo e sostenibile, sotto la guida di Enrico Giovannini, che si è ispirata alla riflessione critica del concetto macroeconomico del reddito come indicatore di benessere e felicità. (Pierluigi Porta ha recentemente pubblicato sul blog www.sviluppofelice.wordpress.com una penetrante riflessione su “Economia della felicità, creatività e crescita”). Ma oltreché di carattere politico le implicazioni di una revisione e ricostruzione del pensiero sull’economia e la felicità hanno un risvolto sociale e relazionale importante. È come aprire una finestra di una stanza asfittica, ridando ossigeno, capacità di vedere, sentire e immaginare quando le risorse più invisibili e potenti di una società, quelle legate alle virtù civili come la speranza, la fiducia, il desiderio di impegnarsi per ricominciare (rinunciando alla tentazione di restare intrappolati in comportamenti accidiosi, come ha scritto Luigino Bruni in un recente articolo su Avvenire) scarseggiano o sono molto provate».

Di cosa ha bisogno l’economia oggi?
«Sismondo Sismondi, storico ed economista dell’Ottocento scriveva che ogni forma di contratto civile diventa una finzione quando qualcuno deve sopportare povertà pesanti e assillanti, come quella più terribile dell’oggi legata alla mancanza del lavoro per tanti. Troveremo più efficacemente respiro, dunque, puntando dritto a ricostruire le maglie strappate o troppo tese della rete che ci unisce facendoci società civile, ricominciando dall’anima delle relazioni nelle quali siamo immersi ogni giorno nelle nostre vite. L’idea centrale degli economisti civili sta proprio in questo: per ricostruire il legame sociale abbiamo bisogno di parole, incontri e sguardi nuovi. Abbiamo bisogno di parole nuove o riscoperte come felicità, fiducia, speranza che possano guidarci nell’incontro con le persone e ridarci uno sguardo diverso sulla realtà e su noi stessi. Il rinnovato interesse da parte del mondo scientifico per i temi della felicità, quindi, penso sia legato alla consapevolezza che non solo è possibile ma che abbiamo la responsabilità di “dire” felicità, anche in economia, restituendo a questa scienza la sua dimensione più intima, quella etica».

Perché un’impostazione del genere, che sembra teorica, si rivela decisiva nelle conseguenze pratiche?
«La scienza, come avevano ben presente gli economisti civili italiani, da Genovesi a Verri, e gli illuministi francesi, ha il compito e la possibilità di offrire immagini, parole e significati al modo di autopercepirci, di interpretare le esperienze che viviamo e di immaginare scenari diversi e nuovi per il futuro. Antonio Genovesi in tal senso scriveva: «Si ha bisogno dunque di buoni sistemi di economia civile per rischiarare le nazioni… La natura è immutabile, ma non immodificabile. Ella dunque si modifica per l’educazione e per la continuata disciplina; ma non si può avere una buona disciplina, senza delle vere e buone teorie». Per poi affrettarsi a sottolineare che il sapere pubblico che può illuminarci nel quotidiano e nella ricerca della personale e pubblica felicità non è solo quello che risiede nell’astratto intelletto, ma anche quello che risiede «nel cuore e nelle mani». In questo senso parlare di felicità come cercare di strapparla all’utopia aprendo spazi di buona convivenza civile e inaugurando esperienze economiche che puntino alla qualità dei rapporti tra le persone risultano atti ugualmente importanti e forse essenziali per ridar vita e consistenza all’esperienza civile».

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