Il penitente

In scena al Teatro Eliseo a Roma una coraggiosa indagine sull’etica della giustizia, del giornalismo, della psichiatria e della religione
Foto di Bepi Caroli

Le colonne dei rotocalchi, i titoli delle breaking news internazionali, immagini di casi di (in) giustizia di ieri e di oggi (da Sacco e Vanzetti a Enzo Tortora, alla più recente assoluzione di Clemente Mastella), le scritte della Torah alternate ai titoli dell’Ansa. È il grande impianto scenografico che illumina i cornicioni delle balconate e il cubo che pende al centro della scena, con immagini che scorrono sui 4 lati. Mentre il penitente legge un giornale e la sala continua a riempirsi. Registra infatti il sold-out la prima dell’opera di Mamet al Teatro Eliseo, regia di Luca Barbareschi, che ne è anche l’interprete principale insieme a Lunetta Savino, Duccio Camerini, Massimo Reale. Lo spettacolo aveva debuttato al Teatro Napoli Festival a luglio, ed è stato performato nei giorni scorsi al Teatro di Tor Bella Monaca, in onore al progetto per le periferie che l’Eliseo porta avanti. Va in scena a Roma fino al 26 novembre.

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È un testo difficile e scomodo, ma assolutamente attuale, quello del premio Pulitzer David Mamet, scritto nel 2016, già tradotto per noi e avvicinato alla realtà italiana. Uno psichiatra di fama, Charles, entra in una profonda crisi esistenziale quando un suo giovane paziente si rende colpevole di una strage con arma da fuoco uccidendo 10 persone. In seguito a questo sconvolgimento interiore, ai dubbi sulla propria professione, si avvicina alla fede e cerca “pace e saggezza” negli insegnamenti della Torah e nei consigli del rabbino. Ne fa oggetto di meditazione e di profonda riflessione, a tu per tu con la propria coscienza. Ma a questa già pesante situazione, si aggiunge la ferocia dei media e della cronaca.

Viene infatti accusato di aver dichiarato che «l’omosessualità è un’aberrazione» in riferimento al proprio paziente, mentre lui ha solo parlato di «omosessualità come adattamento». Emarginato dagli ambienti universitari, il medico passa dall’essere vittima di diffamazione a nuovo mostro, invitato ad accettare le semplici scuse da parte del titolista, a testimoniare in difesa del ragazzo, e a consegnare gli appunti delle loro conversazioni. Invano Charles si appellerà al giuramento di Ippocrate, all’obbligo di riservatezza, invano cercherà di opporsi allo strapotere dei media, consigliato dal suo avvocato:

«Non ci si mette contro chi stampa. Accetta le loro scuse e basta, altrimenti starai sulle prime pagine per settimane».

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Importantissimi i dialoghi: con la moglie, alter ego che gli consente di esplicitare il suo percorso di integrità morale, la sua ricerca di giustizia e al tempo stesso porta il pubblico a interrogarsi su un rapporto di coppia messo alla prova da situazioni estreme e che porterà a scelte estreme. Con l’avvocato, che concentra il malessere della società nelle scelte che consiglia di fare al suo assistito, incalzandolo a cedere sui suoi princìpi più basilari: «Questa è un’inquisizione, una nuova caccia alle streghe, e cedere è immorale», è il lamento impotente di Charles. E superlativo è il dialogo con il magistrato, un testa a testa sulla conoscenza della Scrittura, del Verbo di Dio, in una dialettica cara alla cultura ebraica, e in cui il medico è costantemente sottoposto a tranelli fino a sentirsi dire che «ha rifiutato la difesa del ragazzo per motivi religiosi». «Quel ragazzo ha ucciso 10 persone, e stanno processando me», è l’amara constatazione dello psichiatra. E poi, un finale a sorpresa.

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