Il patriarca, la pipa, il jazz
ALippi, il vecio ha dato un solo consiglio: Sbaglia da solo, non farti aiutare da nessuno!. Il vecio, classe ’27, è Enzo Bearzot, patriarca del calcio italiano, condottiero azzurro nella indimenticabile notte di Madrid. Vive, con l’amata Luisa, ritirato a Milano, per manifesta incompatibilità con i tempi. La segreteria telefonica sempre accesa, con la sua voce, ruvida, lo protegge. La pipa gliel’ha spenta l’aritmia: lo spirito d’andare controcorrente nessuno. Legge, coltiva i pochi amici fidati, assolve felicemente i suoi compiti di nonno, ascolta i suoi vecchi dischi di jazz. Distaccato, ironico, dissacrante verso il calcio iper-professionistico di oggi, allo stadio non va più. Non mi piace un certo tipo di tifo: non quello delle curve, ma quello della tribuna d’onore, vetrina di urlatori paonazzi senza cultura sportiva che gioiscono per una vittoria anche quando non è meritata. I Mondiali li vedrà dal salotto, provando a fingere di nulla. Ma alla prima nota dell’inno nazionale l’intensità del coinvolgimento emotivo sarà la stessa, con in più il peso dell’impotenza: Ho voluto troppo bene alla nazionale per riuscire a seguirla con distacco adesso che non c’entro più. Ha scoperto di amarla quando aveva i calzoni corti, sulla piazza di Gradisca, il pomeriggio del 19 giugno ’38, in mezzo ad una folla festante con la voce di Nicolò Carosio che dagli altoparlanti raccontava da Parigi la finale dei campionati del mondo e le gesta del compaesano Gino Colaussi, due gol in quella partita: Mio padre voleva facessi il medico, il farmacista, o il bancario come lui: quel giorno scelsi il calcio perché compresi che può dare grandissime gioie alla gente. Vi ha passato mezzo secolo. Al debutto in A con l’Inter, che lo prese dalla Pro Gorizia, uscì dagli spogliatoi tra sorrisi divertiti: tradito dall’emozione aveva indossato la maglia col numero davanti. Poi Torino e Catania. Gli attaccanti da marcare si chiamavano Schiaffino e Piola. Il naso storto dalle fratture testimonia il suo temperamento. Ma non lo faceva per mettersi in mostra: Spesso Bearzot – scrisse di lui Bruno Roghi in un articolo ingiallito che il vecio conserva – è dimenticato dai recensori domenicali come, nella lista del ristorante, non si fa citazione del pane. Ma il suo è proprio il pane del nutrimento alla squadra . Uno spirito laborioso ed onesto che avrebbe portato con sé per un altro quarto di secolo vissuto in panchina. Dall’apprendistato al Torino, accanto a Rocco, fino alla preparazione dettagliata, addirittura maniacale, delle vittorie in fila su Argentina, Brasile e Germania, il capolavoro della sua filosofia di allenatore: la creazione del gruppo. Folgorato sulla via di Broadway nell’estate del ’49, durante una tournée oltreoceano con l’Inter, si è convinto sempre più, andando avanti con gli anni, che una squadra di calcio deve somigliare ad un’orchestra jazz: C’è la squadra, l’orchestra, che non cambia: e c’è l’avversario, il tema musicale, che va suonato ogni volta in modo diverso. Nell’ambito poi di una base armonica comune, che va rispettata e corrisponde al sistema di gioco, ciascuno ha la possibilità di esaltare le sue qualità personali, che danno lustro alla prestazione collettiva. La batteria dà i tempi di fondo, come il regista detta alla squadra le cadenze di gioco; il sax può essere il fantasista; il contrabbasso è il libero, capace di difendere, ma anche di offendere; la tromba è il goleador. Tu che dirigi fai in modo che i singoli interpreti si muovano entro il filo conduttore della musica e si adattino di volta in volta al pezzo da suonare, così come alla partita da giocare. Ma sempre in funzione dell’assolo del solista, perché è quello che ti mette i brividi ed è grazie a quello che si vincono le partite. Con questa dottrina ha vinto un Mondiale. Pochi anni dopo Arrigo Sacchi avrebbe tentato la fortuna con l’esatto opposto: il sacrificio del talento del singolo al rispetto dello spartito. Agli azzurri di oggi ha augurato, contro il comune sentire, di trovare il Brasile agli ottavi: Avendo più tecnica, si stancano meno: in finale potrebbero essere più freschi di noi. Ed invidia la presenza di Totti: L’avrei voluto io: è un fuoriclasse. Quando lo capirà, regolerà i suoi comportamenti. In quanto a fuoriclasse di sempre la sua classifica è assolutamente originale: Van Basten re degli ultimi venti metri, Maradona degli ultimi trenta. Platini dei cinquanta, Zidane dei sessanta. Cruyff dei settanta, Di Stefano del campo intero. E Pelè? Un fenomeno, ma non si è mai misurato con il vero calcio, quello europeo…. Anche sugli allenatori ha idee chiare. I migliori, per lui, nascono fra quelli che hanno giocato a centrocampo, dove servono classe, altruismo e intelligenza. Per fare poi bene il mestiere atipico ed estremamente empirico dell’allenatore si può partire da angolazioni diverse: La mia è la creazione del gruppo, un’idea di gruppo non molto distante da quella di famiglia, allargata, si capisce. Se ti senti inserito in un gruppo vero sai di poter contare, in qualsiasi momento, sulla solidarietà degli altri. E di dover essere pronto a fornire la tua, altrettanto tempestivamente. E sai che chi ti ha inserito sarà sempre molto attento a valutare il tuo impegno e la tua dedizione: e a perdonarti, in presenza di questi requisiti, una prestazione non positiva. Per questo ripeteva ai giocatori che le pagelle di cui devono tener conto sono le sue e non quelle dei giornali. Per questo tra i ragazzi dell’82 conta gli amici più sinceri. Per questo ripete, contro ogni evidenza del momento: Nel calcio occorre ripristinare quell’atmosfera, necessaria e sufficiente a conservare una percentuale di spirito amatoriale, la gioia di partecipare, la voglia di vincere, il bello della sconfitta vissuta come una pedana di lancio. Ogni sconfitta è utile: ma bisogna saperla leggere, analizzarla approfonditamente, fare autocritica, individuale e collettiva, fino alla solidarietà, l’anticamera della voglia di rifarsi.