Il pastore di Stabia

Una mostra a Castellammare di Stabia riporta all’ammirazione del pubblico i tesori dell’antica città vesuviana riscoperta da un preside
Il pastore di Stabia

Da palazzo reale della dinastia angioina citato da Boccaccio nel suo Decamerone a Real Casina dei Borbone, a collegio e infine albergo. Poi l’abbandono e il degrado: tante, nel corso dei secoli, sono state le trasformazioni subite da questa dimora storica con relativo giardino all’italiana e bosco di castagni e nocciuoli, situata nella zona collinare di Castellammare di Stabia. Già meta preferita dei regnanti napoletani che vi trascorrevano periodi di riposo e di cura, nonché tappa obbligata del Grand Tour,  Quisisana – tale è il nome di questa antica reggia ora rinata grazie ai restauri conclusi nel 2009 – attende una sua destinazione d’uso. Fra la varie prospettate: scuola di restauro e museo dei reperti provenienti dall’antica Stabia, l’altro importante sito del golfo di Napoli sepolto dalle ceneri e dalle pomici del Vesuvio.

Intanto nelle sue sale è in corso fino al 31 dicembre la mostra Dal buio alla luce, che comprende una selezione di essi: affreschi, stucchi, opere scultoree e altri reperti dalle lussuose ville annidate ai piedi dei Monti Lattari sulla collina di Varano, insieme a strumenti d’uso quotidiano ed attrezzi agricoli dalle fattorie sparse nel territorio. Vi ho rivisti fra l’altro, come vecchi amici, il frammento di affresco d’Ippolito dal mantello rosso vivo, l’elegante cratere di marmo alabastrino proveniente dalla villa di San Marco, il carro agricolo rinvenuto nel quartiere rustico della Villa di Arianna e la statuetta di pastore dalla Villa detta appunto del Pastore.

L’emozionante rassegna (l’ultima del genere, In stabiano, risale al 2001) mi ha riportato al 1963, quando avevo sedici anni e una prorompente passione per l’archeologia.  Già avevo visitato più volte Pompei ed Ercolano, quando mi capitò di leggere qualcosa su Stabia, la grande sconosciuta. Stabia sul cui lido, per portare soccorso alle popolazioni colpite dall’eruzione (ma anche per osservare più da vicino il fenomeno), era approdato Plinio il Vecchio, il grande naturalista comandante della flotta di Miseno, trovandovi la morte.

Dopo la distruzione operata nell’89 a. C. da Silla durante la “guerra sociale”, la città era risorta: si era “sparsa” tra residenze signorili e rustiche (ieri come oggi il territorio era indicato per colture di viti, olivi, alberi da frutta e ortaggi), diventando un rinomato luogo di otium e cure termali grazie alla posizione privilegiata sul golfo di Napoli e alla eccezionale ricchezza di sorgenti medicamentose. Negli scavi borbonici del Settecento molte di queste dimore vennero riportate alla luce, spogliate di decorazioni e suppellettili e nuovamente sepolte: il metodo di un’epoca in cui l’archeologia faceva i suoi primi passi come scienza.

Ma tutto non poteva essere andato perduto, qualcosa doveva essere rimasto: ne era fermamente convinto uno stabiese dei nostri tempi col pallino dell’archeologia, Libero D’Orsi, preside di una scuola media di Castellammare di Stabia, la nuova città sorta accanto all’antica. Il quale – così avevo letto non so dove – con gli scarsi mezzi di cui disponeva e l’aiuto di qualche volenteroso, nel 1950 era riuscito a convincere qualche proprietario terriero del posto a consentirgli qualche saggio di scavo in mezzo ai cavolfiori e alle lattughe.

Appena raspato il terreno, ne erano riemersi muri, colonne, brani di affreschi la cui tecnica impressionistica, più libera dai canoni usuali della pittura romana, aveva “impressionato” i cultori dell’arte e dell’archeologia: quanto bastava per convincere la Soprintendenza ad estendere anche a Stabia, la negletta Stabia (che ancora attende di essere inclusa nelle liste del patrimonio Unesco), gli scavi dedicati alle più celebri consorelle vesuviane. Intanto il tenace e battagliero preside riempiva i locali terreni del suo istituto intitolato a Plinio Seniore con i preziosi reperti dei primi fortunati scavi. Nasceva così l’Antiquarium stabiano, rimasto aperto fino al 1997. 

Ma torniamo al 1963. Allettato dalle notizie lette, riuscii a contattare telefonicamente il D’Orsi, che mi fissò un appuntamento a Castellammare con la promessa di condurmi a visitare le sole due ville accessibili al pubblico: quella detta di San Marco dal fondo omonimo e quella di Arianna (in realtà due complessi contigui), così denominata da una importante pittura raffigurante questa figura mitologica insieme a Teseo.

Alle prime luci di un’alba invernale, me ne partii da Napoli col trenino della Circumvesuviana e un formicolìo di ansietà: mi aspettava l’antica Stabia! Arrivai a destinazione ben prima dell’ora fissata e, rintracciata la scuola media, mi appostai all’ingresso dell’Antiquarium ancora chiuso. Dopo paziente attesa, ecco arrivare il preside (aveva proprio la faccia da preside!), al quale mi presentai come il giovane dell’appuntamento che aveva anche avuto corrispondenza con Amedeo Maiuri, il grande archeologo dei siti vesuviani e non solo.

Cortese, ma senza cambiare la sua espressione severa da preside, D’Orsi mi invitò a fare un giro delle sale in attesa della comitiva alla quale mi sarei aggregato. La visita mi incantò, accrescendo il mio formicolìo. Oltre ottomila reperti erano raccolti in undici sale senz’altro inadeguate: affreschi (quel volto dolente di Medusa, tracciato con drammatiche pennellate!), stucchi, frammenti di pavimenti in opus sectile, steli e corredi funerari, lapidi, sarcofagi, statue, oggetti in bronzo e ferro, vasi corinzi, campani e sannitici, anfore, dolia, un magnifico labrum… Intanto erano arrivati altri visitatori, evidentemente attesi da D’Orsi, il quale diede alcune istruzioni a chi doveva guidarci per una scorciatoia alla prima delle ville: un sentiero sgarrupato che s’arrampicava fin sopra Varano, surrogato delle rampe usate dagli antichi stabiesi come collegamento tra la collina e il mare. Lui invece ci avrebbe preceduto in auto.

Quella ascesa fra la vegetazione selvaggia aggiunse un pizzico d’avventura alla visita. Ogni tanto mi capitava di veder affiorare lungo il sentiero cocci, frammenti di tegole e laterizi, certamente materiali delle ville franati a valle. Compiaciuto per la mia capacità di riconoscere indizi archeologici che gli altri sembravano non notare, non m’accorsi d’essere arrivato col fiatone sul ciglio del pianoro. Da lì, seguendo il capogruppo lungo un viottolo in mezzo a campi ormai spogli e immersi nel riposo invernale, giungemmo ad un casolare all’apparenza deserto. E lì sull’aia, fra galline razzolanti sorvegliate da un gatto, trovammo ad attenderci il preside-archeologo pronto a guidarci allo scavo.

Quale sorpresa quando davanti mi si spalancò dall’alto la visione scenografica di un porticato dalle candide colonne (sugli ambulacri erano stati ricostruiti i tetti) e di un giardino attraversato da una piscina lunga circa trenta metri: la natatio! In fondo, attraverso lo squarcio di una sala di soggiorno priva di copertura, si apriva lo scenario ancora stupendo, nonostante il dilagare delle moderne costruzioni lungo il litorale, del golfo e del Vesuvio. Era il peristilio inferiore di una vastissima proprietà semi-pubblica che si adattava meravigliosamente alla conformazione del pianoro. Visitammo in religioso silenzio, attenti alle spiegazioni del D’Orsi, il quartiere abitativo e quello termale, ammirando i pavimenti in mosaico e le pitture rimaste in situ. Il professore ci tenne soprattutto a illustrarci il peristilio superiore, con le sue insolite colonne tortili ricoperte da stucco bianco e giallo oro. Purtroppo nel 1980 un terremoto avrebbe abbattuto quel raro colonnato, apportando altri gravi danni alla villa.

Un paio di anni dopo, approfittando di una vacanza curativa presso le terme di Castellammare, volli ritornare a San Marco, stavolta insieme a mia madre. L’immagine desolante dei due peristili, l’uno totalmente distrutto, l’altro con le colonne crollate e sommariamente fasciate con teli di plastica o puntellate fu tale da stringere il cuore: qualcosa di simile doveva presentarsi all’epoca della catastrofe del 79 dopo Cristo. Solo molto più tardi ebbi la gioia di rivedere l’intero complesso restaurato, come risorto, anzi con lo scavo ampliato a un nuovo settore. Sono questi i miei ricordi dell’antica Stabia, evocati dalla mostra al Quisisana, mentre contemplo uno dei pezzi più prestigiosi, una statuetta di neanche settanta centimetri.

Ritrovata nel 1967 scavando un’altra grandiosa dimora affacciata sul pianoro di Varano, raffigura un anziano pastore vestito di una corta tunichetta di pelli che gli lascia scoperta la parte destra del busto.  Trasporta in spalla un capretto mantenuto con la mano sinistra, ha un cesto colmo di frutta e spighe infilato nel braccio sinistro e regge una lepre nella mano destra. Sulla superficie del marmo è ancora visibile qualche traccia dell’originaria policromia.

Si tratta di un raffinato prodotto di età ellenistica, destinato a ornare il giardino della villa. Il pastore, la cui testa massiccia lievemente piegata a sinistra si appoggia a quella del capretto, sembra quasi colloquiare con l’animale, a giudicare dalle labbra socchiuse. La raffigurazione dolce e pacata spira serenità, materializza un patto uomo-natura che nella Campania Felix ha trovato una delle sue espressioni più significative proprio qui a Stabia.

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