Il paradosso del grazie
Anche un semplice ringraziamento al bar nasconde valori morali ed economici.
Sono invitato a cena, porto una bottiglia di buon vino e il mio ospite mi dice “grazie”. Prendo un caffè in stazione, e dopo aver pagato dico “grazie” al barista. Due “grazie” detti in contesti che sembrerebbero molto diversi: dono e amicizia nel primo, contratto e anonimato nel secondo. Eppure usiamo la stessa parola. Che cosa accomuna questi due fatti? Il loro essere incontri liberi tra esseri umani. Quel grazie che non diciamo solo all’amico ma anche al barista, al panettiere o al cassiere non è solo buona educazione o abitudine, ma il riconoscimento che anche quando non stiamo facendo altro che il nostro dovere, nel lavorare c’è sempre qualcosa di più; anzi, potremmo dire che il lavoro inizia veramente quando andiamo oltre il dovuto e mettiamo tutti noi stessi nel preparare un pranzo, avvitare un bullone o fare una lezione in aula. Si lavora veramente quando al sig. Rossi si aggiunge Mario, quando al prof. Bruni si aggiunge Luigino. Quando invece ci si ferma prima di questa soglia, il lavoro umano diventa troppo simile a quello della macchina del caffè.
È qui però che incontriamo un paradosso: i lavoratori e i dirigenti di ogni impresa sanno che il lavoro è veramente tale e porta anche frutti di efficienza ed efficacia quando è eccedente rispetto al dovuto, quando è dono (come ci ricorda l’ultimo bellissimo libro di N. Alter, Donner et prendre, La Découverte); le imprese però non riescono con gli strumenti a loro disposizione a riconoscere il “di più” del dono. Se infatti per riconoscerlo usano gli incentivi classici (denaro), il “di più” diventa dovuto e scompare; se però non fanno niente, nel tempo il “di più” del lavoratore viene meno, producendo tristezza e cinismo nei lavoratori, e peggiori risultati per l’impresa. Sta in questa impossibilità di riconoscimento dell’eccedenza del lavoro una delle ragioni per cui, in tutti i tipi di impiego, arriva una profonda crisi, quando ci si rende conto di aver dato il meglio di sé a quella organizzazione, ma senza reciprocità, senza sentire riconosciuto il dono della propria vita, che è sempre più grande del valore dello stipendio ricevuto. L’arte di gestire organizzazioni sta oggi soprattutto nell’inventare nuovi modi per riconoscere tale dono.