Il paradiso di fra’ Giovanni
Oggi ricorre la festa liturgica di Guidolino di Pietro, domenicano col nome di fra’ Giovanni da Fiesole, ma noto a tutti come il Beato Angelico. Beato per davvero, non solo per la definizione del Vasari, ma perché così l’ha voluto papa Wojtyla, proclamandolo protettore degli artisti.
Così oggi a Roma, nella basilica domenicana di santa Maria sopra Minerva (nella foto), dove è sepolto dal 1455, anno della morte, ci sarà un concerto di musiche sacre di un altro grande artista: il prete-musicista veneziano Antonio Vivaldi, morto trecento anni dopo il nostro.
Il volto di fra’ Giovanni, scavato, ossuto, contadinesco, è tutto chiuso nella piccola lastra tombale. Un volto consumato dall’ascetica e dal lavoro del frate pittore. Un genio, non solo il pittore dei santi, dei Cristi biondi, degli angeli riccioluti e dorati.
Nell’Anno della fede è un artista da riscoprire. Giovanni vede tutto sotto l’occhio della resurrezione, come l’arte paleocristiana. Egli vive in un mondo già risorto. Per questo i suoi santi sono ritratti di persone, anche viventi, risorte, luminose negli occhi e nei colori, fresche di una gioventù interiore che annulla l’età e la fatica, il tempo e il luogo. Il dolore, quando c’è – e c’è nelle crocifissioni e nelle deposizioni, nei martiri e nell’aria sospesa di certe annunciazioni – è un passaggio, perché già il cielo è presente con la dimensione della immortalità. Ma i suoi personaggi sacri, che paiono talora immateriali, senza corpo, a ben vedere, sotto le vesti dai colori tersi come primavera, hanno robustezza, gli incarnati dei volti sono sani, le architetture così armoniose si cadenzano in colonnati classici ben costruiti.
Solo che Giovanni rende tutto leggero, trasparente, perchè la sua anima è invasa dalla luce. Non c’è traccia di fatica, di tormento, nella sua opera e nella sua vita. Tutto viene facile perché illuminato dall’alto di una ragione pervasa dalla fede: è un domenicano. Ma è lecito pensare che Giovanni abbia avuto i suoi dubbi e i suoi dolori; solo che li ha superati con uno spirito di preghiera, come racconta il Vasari. E infatti, entrando nelle celle fiorentine di san Marco, dove egli ha dipinto le sue meditazioni visive sul vangelo, si avverte che il dolore c’è stato, ma è stato subito oltrepassato verso una dimensione di paradiso, cioè di serena fermezza, di poesia umile e casta, che è la voce sua più autentica. Quella di una religione, e di un’arte, dove mente e cuore sono insieme senza contrasti, irrorate dalla luce bianca e dorata onnipresente in ogni sua opera.