Il papa, i suoi maestri e l’Italia

Nella manifestazione di sabato scorso dedicata alla scuola papa Francesco cita due esempi: la sua prima maestra e don Lorenzo Milani. Avevano mezzi poveri e hanno cambiato il cuore di molti. Oggi indicano la via di una vera sapienza, senza la quale le risorse economiche sono solamente richiesta di privilegi
Papa Francesco incontra il mondo della scuola

Sabato 10 maggio la scuola italiana si è riunita in piazza san Pietro insieme a papa Francesco. Una folla smisurata e al tempo stesso consapevole ha partecipato a questa assemblea non solo ecclesiale, ma anche civile. Molti hanno parlato, hanno cantato, hanno suonato per celebrare questa festa. Ma tutti erano venuti per ascoltare la parola di papa Francesco. Tutto il resto era  contorno.

Egli ha parlato innanzitutto della sua maestra: «Ho l’immagine del mio primo insegnante, quella donna, quella maestra che mi ha preso a sei anni, al primo livello della scuola. Non l’ho mai dimenticata, lei mi ha fatto amare la scuola. E poi sono andato a trovarla durante tutta la sua vita, fino al momento in cui è mancata all’età di 98 anni. E questa immagine mi fa bene! Amo la scuola, perché quella donna mi ha insegnato ad amarla».

E mentre ascoltavo questo racconto bellissimo, ho pensato alla mia maestra, che ha accettato la sfida nel 1950 di accogliermi con la mia poliomielite e con la mia fragilità nella sua classe, dandomi la possibilità di studiare e di volare, quando tutto e tutti indicavano il contrario. Insieme alla mia mamma ha scommesso su di me, mi ha permesso di superare la prigione e l’isolamento e mi ha indicato la via per correre la vita.

Ma dopo aver ricordato la sua maestra, papa Francesco all’improvviso ha ricordato un altro maestro, squarciando i veli dell’ipocrisia e dell’opportunismo ecclesiastico: «Ma se uno ha imparato a imparare – è questo il segreto, imparare a imparare! – questo gli rimane per sempre, rimane una persona aperta alla realtà. Questo lo insegnava anche un grande educatore italiano, un prete, don Lorenzo Milani».

Per la prima volta un papa ha ricordato in modo solenne e impegnativo il priore di Barbiana. È stato un annuncio, un'indicazione programmatica, non è stato un debito verso il passato, ma un impegno per il presente e per il futuro. Barbiana è l’icona della Chiesa dei poveri, la Chiesa dei montanini, dei ragazzi che tutti rifiutavano e giudicavano. Poveri di parole e dunque poveri nella vita. Fino alla fine don Lorenzo è stato educatore di ragazzi in condizioni difficili e drammatiche, senza distrarsi, senza sottrarre nulla a loro, neanche il suo riposo e neanche il suo dolore.

Barbiana è anche un grande discorso sulla democrazia italiana e sulla sua Costituzione, sul possibile ritorno del fascismo. Non esiste democrazia senza parole e la sfida della parola, del suo studio, diventa il modo concreto per realizzare la Costituzione e per praticarne l’ispirazione. Emerge il paradosso di Barbiana, la scuola "più privata", più povera, più profetica d’Italia. Per decenni abbiamo scelto la via del rivendicazionismo economico per sostenere le scuole private e non si comprendeva che dovevamo seguire semplicemente l’esempio di don Lorenzo, che ha fatto di Barbiana una scuola in grado di parlare alla società italiana e di rinnovare la Chiesa.

Stupisce che questo grande annuncio di papa Francesco sia stato sostanzialmente ignorato dalle grandi testate giornalistiche, quasi non fosse una buona notizia, un vangelo per la Chiesa e per il Paese, la proclamazione del nome di Lorenzo Milani, al cuore di un tempo che sta perdendo non solo in economia, ma anche in cultura e Costituzione.

Sono passati 37 anni dalla morte di don Lorenzo e ancora oggi molti salgono a Barbiana per cercare le orme della visita di Dio nella storia di questo prete, assolutamente obbediente alla sua Chiesa e assolutamente libero nel vivere il Vangelo nella compagnia dei poveri. La fecondità di don Lorenzo sta nel fatto che, mandato a Barbiana, un poso sperduto nel Mugello, per punizione, egli ha fatto, in forza del suo amore per i poveri e per il Signore, di una sgangherata canonica una luminosa scuola, capace di anticipare i tempi nuovi della giustizia e della pace.

Così don Milani definisce l’insegnante nella "Lettera ai giudici": «Allora il maestro deve essere per quanto può un profeta, scrutare i “segni dei tempi”, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle, che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso». Pensavo a questa frase mercoledì scorso parlando ai ragazzi del carcere minorile di Catania, che cercano il loro futuro e vogliono uscire dalla loro prigione culturale ed esistenziale. Dobbiamo consegnare parole di verità, perché solo la verità ci rende liberi. E la verità genera l’incontro tra maestro e discepolo.

Nel suo primo discorso alla scuola italiana, papa Francesco cita questi due maestri: la sua vecchia e mai dimenticata maestra e don Lorenzo. E li pone come fonte di acqua viva per convertire l’Italia. Avevano mezzi poveri e hanno cambiato il cuore di molti e oggi indicano la via di una vera sapienza, senza la quale le risorse economiche sono solamente richiesta di privilegi.

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