Il pane d’oro e la paura del contagio

Pur al confine con l'Afghanistan, il Paese centrasiatico rimane stabile. Tra crescita del turismo e timori di infiltrazioni fondamentaliste.
Uzbekistan

Qui vige un vero e proprio culto del pane. Un pane sempre rotondo, che ai profani potrebbe sembrare dappertutto uguale: rialzato sui bordi e costretto da un “timbro” chiodato a non lievitare al centro. In realtà è assai diverso da città in città: soffice o croccante, secco o unto, lievitato o azzimo. In ogni caso è tra i pani più belli mai visti. E l’Uzbekistan è un po’ come il suo pane, rialzato ai bordi per impedire contaminazioni e infiltrazioni, mentre al centro il Paese fatica a lievitare, costretto com’è a pagare la propria indipendenza con uno sviluppo dalle ali tarpate e con una forte corruzione, senza scordare l’eredità comunista della monocultura del cotone, che ha distrutto quello che era chiamato una volta il “giardino dell’Asia”. Un Paese di contraddizioni, dunque. Ma in Uzbekistan, comunque, non si vive poi così male.

 

Religiosità e commercio

 

Bisogna fermarsi nella capitale, Tashkent, per capire come vanno le cose in Uzbekistan. Qui, infatti, ha sede non solo il potere politico di Karimov, uno dei pochissimi leader dell’epoca comunista rimasto ancora al potere, dopo l’abdicazione di Fidel Castro; ma pure la religione islamica ha la sua culla qui nella capitale distrutta dal terremoto del 1966. Attorno al mausoleo di recente restaurato di Kaffal Shashi – filosofo, poeta e medico del X secolo –, delle donne s’impiastricciano il volto con la polvere raccolta attorno alla tomba, nella speranza di arrestare il corso degli anni e il decadimento fisico. Qui vive e opera il gran muftì, che dirige un Islam “alla sovietica”, funzionale al potere politico e tuttavia dal volto conciliante. Se l’Uzbekistan non è stato preso nel girone infernale dei talebani, ciò è certamente dovuto anche all’opera del gran muftì di Tashkent. Oltre al fatto, come scriveva Tiziano Terzani, che «gli uzbechi sono tradizionalmente ligi al potere e noti per la loro apatia politica». «Ma è innegabile che l’Islam sia stato l’elemento unificatore dell’Asia centrale e che continuerà a esserlo», mi dice il gran muftì in persona, Shaykh Abdurahman Bakhromov, incontrato per caso nella “sua” cittadella. E aggiunge: «Il Paese è musulmano, ma tutte le religioni qui da noi sono ben accette, come è successo in queste terre dai tempi di Tamerlano». Che anche qui qualche centinaia di migliaia di persone le aveva sgozzate…

 

Santità e peccato

 

Bisogna invece passare qualche giorno a Bucara, una delle città sante dell’Islam, per capire gli uzbechi. Nella deambulazione casuale per le vie della città non ufficiale, tocco con mano la bontà di questa gente, la loro accoglienza senza calcoli. Ho una surreale conversazione metafisica, sul Cielo e sulla Terra, su Dio e la morte, sulla grazia e sul peccato (che qui a Bucara non manca!) a semplici gesti, con tre vecchietti seduti dinanzi a una delle centinaia di moschee e madrase di cui la città è composta. Non saprei ripeterla, questa conversazione, ma so che ha parlato ai nostri cuori e alle nostre anime. Il fatto è che nella peregrinazione (questo è il termine giusto) per le vie di Bucara, ci si imbatte in mille e mille sorprese “sante”, sin nei muri che nelle persone. È vero, a parte qualche monumento più noto, il resto della città non è che versi in buone condizioni e non penso che sia poi cambiato molto dai tempi di Ella Maillart, che aveva definito Bucara «la città dei morti». Sì, è ancora la città dei morti, ma con una buona propensione alla vita, proprio per il suo costante confronto con la fine della vita. E la memoria di chi fu.

 

Bellezza e sovieticità

 

Samarcanda è invece il cuore della bellezza uzbeca: il Registan, lo Shah-i-Zinda, la moschea di Bibi Khanoum… Capolavori dell’arte dei timuridi e dei persiani deportati da Tamerlano. Samarcanda è anche la città in cui l’eredità sovietica ha lasciato pesanti condizionamenti. Ma nel contempo, bisogna dirlo, ha liberato questi popoli da atavici condizionamenti. Il rapporto tra danni e benefici è discusso. La società uzbeca appare almeno in parte schizofrenica, con l’anima divisa in due: una che guarda ancora a Mosca, l’altra a quest’Asia centrale che – come tutte le terre di mezzo – trova la sua identità nella non identità delle terre di frontiera.

L’Uzbekistan cerca pragmaticamente di mantenere un certo equilibrio tra i “grandi”, vicini e lontani. Ad esempio, agli Usa aveva concesso d’installare una base militare nel 1998, per sostenere le operazioni in Afghanistan; ma poi, di fronte alle richieste Usa di un’indagine internazionale sui metodi della polizia di combattere il fondamentalismo, nel 2005 ha ritirato il suo consenso e gli Usa hanno ripiegato sul Kirgizistan. Anche i russi cercano ora di riavvicinarsi, ma Kamirov e i suoi non cedono alle sirene dei miliardi di dollari promessi. Infine, va sottolineata la grande amicizia che c’è con la Corea del Sud, mentre l’India vorrebbe mettere un piede in Uzbekistan…

 

Agricoltura e fondamentalismo

 

La Valle di Fergana è una sorta di proboscide dell’Uzbekistan, mutilata però di ampie parti rimaste al Kirghizistan, propaggine geografica dello stalinismo all’apice della paranoia del divide et impera. Sicuramente è la regione più fertile di tutto il Paese. Qui si incontra un numero maggiore di veli islamici e i controlli di polizia si fanno più serrati, perché la regione è notoriamente la più “sensibile” ai messaggi fondamentalisti dei wahhabiti. Ad Andjian nel 2005 c’è stata una strage di cui pochissimo si sa. E ad Özgön, appena al di là della frontiera, nel 1990, varie centinaia di persone rimasero uccise per misteriosi scontri interetnici.

A proposito, Kokand è un buon osservatorio per capire la gente uzbeca. Uzbeca, cioè… La ragazza che gestisce il banco dell’albergo ha gli occhi a mandorla: «Sono uzbeca al cento per cento», mi dice. Il guardiano, invece, è somaticamente turco, nessun dubbio: «Sono uzbeco al cento per cento». E la donna che gestisce il bazar di souvenir è bionda e lentigginosa: «Anche lei uzbeca al cento per cento?». «Certo, ha dei dubbi?». Ne ho. E così scopro che la prima ha radici in Kirghizistan. Il secondo viene dal Turkmenistan, ma ha un cinquanta per cento di sangue tagico. E la terza è russa per metà, kirghisa e kazaka per un quarto. Tamerlano aveva avviato nel XVI secolo una vera globalizzazione ante litteram: dalle sue spedizioni tornava con decine di migliaia di prigionieri, che integrava in patria. E la Via della seta facilitava transazioni sia commerciali che umane.

Così qui in Uzbekistan, malgrado improvvise vampate di rivalità etnica, la convivenza interetnica è norma. Non servono grandi studi per capirlo: basta trattenersi un’ora nel bazar di una qualsiasi città per percepirlo.

Michele Zanzucchi

 

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Pochi, ma decisi

 

Intervista al vescovo cattolico di Tashkent che conosce per nome tutti i suoi fedeli.

 

Nei locali del vescovado in un basso edificio sottostante la chiesa del Sacro cuore a Tashkent, intervisto il vescovo locale, mons. Jerzy Maculewicz, polacco. La sua affabilità e la sua disponibilità tradiscono la sua origine francescana. «Questi popoli dell’Asia centrale – mi conferma – sono aperti e accoglienti. Hanno culture che non entrano subito nel concreto delle faccende, ma pospongono l’attivismo alla gentilezza, al “perdere tempo” assieme».

 

È ancora forte l’influenza sovietica?

«Il popolo uzbeco è felice di aver trovato la sua indipendenza. Nello stesso tempo, soprattutto per via della difficile situazione economica, ma anche per la complessità etnica del Paese, non pochi vorrebbero tornare alle “sicurezze” del periodo sovietico. La libertà difettava, ma all’epoca la sussistenza era garantita».

 

Il pericolo fondamentalista è reale?

«Tra i talebani c’erano e ci sono uzbechi: i confini tracciati nella zona sono artificiali e non corrispondono alle “mappe” etniche. Comunque di polizia ce n’è tanta per le strade e i controlli vengono fatti costantemente. Al confine c’è una vera e propria barriera, è impossibile penetrarla. I fondamentalisti o sono in carcere o sono espatriati».

 

Grande influenza sembrano avere anche Turchia e Cina.

«Dopo la rivoluzione del 1991, turchi e arabi volevano entrare in Uzbekistan, usando scuole e moschee: la legge contro il proselitismo ha perciò preso di mira innanzitutto loro, ancor prima dei cristiani. È innegabile tuttavia che il Paese abbia relazioni privilegiate con la cultura turca, come testimonia la sua stessa lingua. I cinesi, invece, non hanno con gli uzbechi queste tradizioni culturali, ma in questo momento stanno penetrando economicamente nel Paese: quasi il cinquanta per cento delle merci proviene ormai dalla Cina. Politicamente l’influenza è minore».

 

Parliamo un po’ della Chiesa cattolica…

«È molto giovane. Il primo sacerdote è arrivato nel 1987, veniva dalla Ucraina. Nel 1991, partiti quasi tutti i tedeschi, è arrivato il primo francescano, a Tashkent. In poco tempo sono state registrate le parrocchie della capitale e di Fargana, mentre più tardi sono state avviate le attività a Samarcanda, Urgench e Bucara… Nel 1997 Giovanni Paolo II volle affidare i Paesi dell’Asia centrale ciascuno a un ordine religioso. I conventuali ricevettero l’Uzbekistan. Ora sono una decina i francescani polacchi qui presenti».

 

Come “comincia” una comunità? «Da una famiglia o da una o due persone che desiderano conoscere meglio la Chiesa cattolica. Così sono nate le prime comunità quando ancora c’erano numerosi battezzati, anche se non legati alla Chiesa. Poi, dopo la rivoluzione del 1991, è cominciato un esodo impressionante dei russi e degli “stranieri”, cosicché le nostre chiese si sono svuotate. Ma ogni anno ci sono nuovi battezzati, provenienti in massima parte da coloro che il comunismo aveva lasciato senza fede».

 

Come sono i rapporti con gli ortodossi?

«Purtroppo non sono eccezionali. A livello ufficiale non ci sono rapporti. A livello personale, invece, esistono e sono proficui».

 

E col mondo musulmano?

«La Chiesa cattolica è un piccolo seme che dà frutto in un Paese musulmano. Questa è la realtà che noi accettiamo di buon grado. Non dobbiamo dare messaggi di proselitismo, e soprattutto non dobbiamo attuarlo. Siamo accanto ai musulmani, non siamo contro di loro: possiamo convivere e far qualcosa di utile assieme».

 

Come si prospetta il futuro?

«Mi accontento per ora di essere uno dei pochi pastori che possono dire di conoscere tutte le proprie pecorelle per nome! Non penso che presto ci sarà una comunità cattolica di dimensioni ragguardevoli. Dobbiamo essere autentici testimoni di Cristo, dobbiamo essere credibili con la nostra fede».

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