Il Pakistan, un Paese da scoprire
«La questione dell’incontro o scontro di civiltà è di grande attualità. Viviamo in società plurirazziali, multietniche, multiculturali, e il contatto fra mondi un tempo lontani, anche quando non si traduce in dialogo o contempla perlomeno un certo tentativo di capirsi, è comunque un fatto che oggi tocca inevitabilmente anche chi non avrebbe nessuna intenzione di farsi coinvolgere. Le strade delle nostre città si colorano di diversità, la folla non è più uniforme: un popolo variamente composto ci porta a fare i conti con le nostre sicurezze. Queste persone non le conosciamo e non possiamo presumere di conoscerle sradicate come sono dalle loro terre, dal loro modo di vivere, di pensare, di sentire. Ci fanno paura.
Ho vissuto per ventitré anni in una terra da cui partono molti emigranti, il Pakistan, e ho fatto l’esperienza opposta: un’occidentale, cristiana, in terra islamica, campione da tutti i punti di vista di una vera e propria minoranza. Per di più donna. Non è stato automatico e indolore arrivare ad assaporare la bellezza di quella terra e della sua gente: è stato un processo graduale, durante il quale sono andati scemando sicurezze e schemi mentali, reazioni di difesa o di superiorità anche inconsce.
È un’operazione che rifarei per intero, senza sconti, per quanto mi ha dato.
Ho lasciato definitivamente questa mia seconda patria, e questo racconto non vuole avere il sapore del bilancio: è piuttosto frutto del desiderio di fissare nel tempo la gratitudine per il dono che il Pakistan è stato per me.
Mi piacerebbe contribuire a gettare uno sguardo di simpatia su questi mondi temuti, popolati da uomini e donne che avrebbero invece tanto da darci. E così ho pensato di scrivere a ruota libera. Molto probabilmente non riuscirò a raccontare una storia vera e propria, fedelmente cronologica. Ho ricordato fatti e impressioni, sapori, profumi, suoni e colori. Le persone con cui ho condiviso questi anni entrano nel quadro senza presentazioni, direi di diritto, come parte di me.
Sono arrivata in Pakistan a causa di una scelta importante. Da molti anni, infatti, avevo conosciuto e cercato di fare mia la proposta di vita del Movimento dei Focolari, un movimento laico nato in seno alla Chiesa cattolica. A un certo punto del cammino ho deciso di giocarmi tutto e dare il mio contributo alla visione dell’umanità come un’unica famiglia, al sogno della fratellanza universale, finalità della vita del Movimento.
Il rapporto con Dio ha illuminato i passaggi facili e difficili di questo cammino e il Vangelo mi ha insegnato quella grande strategia relazionale che è l’amore autentico all’uomo. Il Pakistan è stato un banco di prova e una grande scuola di umanità. E quando dico Pakistan, intendo l’esperienza che ho fatto lì, quello che ho visto e imparato e che ho provato a descrivere in queste pagine.
Il Pakistan mi si è rivelato a poco a poco, si è fatto spazio a volte dolcemente, a volte con irruenza. Mi ha aperto cuore e mente a ricchezze prima inesplorate, a un’esperienza appagante e piena che mi ha permesso di entrare in un mondo per lo più sconosciuto all’immaginario collettivo occidentale, lontano anni luce dalla proiezione che ne offrono i media.
Non è stato tutto scontato, ma direi che è stato naturale, con piccole conquiste quotidiane ad alimentare la convinzione che il vero Paese s’incontra nel cuore della gente. I pakistani mi hanno insegnato una dimensione dell’accoglienza che non conoscevo, l’arte del silenzio interiore come spazio perché l’altro possa aprirsi, il significato di farmi piccola perché l’altro possa sentirsi grande. Mi hanno fatto partecipe della loro spiccata sensibilità, mi hanno fatto vedere come soffrire, vivere, gioire e anche morire insieme, senza falsi pudori travestiti da rispetto umano. Mi hanno fatto conoscere aspetti della vita di cui non sospettavo l’esistenza e di fronte ai quali tutto si semplifica e le proporzioni cambiano: tante cose perdono importanza, altre ne acquistano a dismisura. S’impoveriscono spiegazioni, introspezioni, analisi, affermazioni categoriche e puntualizzazioni, e si arricchisce la sfera dei sentimenti, della partecipazione, dell’intuizione, del servizio.
L’ingenuità che nel mondo occidentale, a parte la dolcezza evocata dai bambini, spesso suona sinonimo di inadeguatezza e mancanza di contatto con il reale, mi è apparsa in tutta la sua carica positiva. L’ho scorta soprattutto in anime grandi, negli esperti della vita. In loro ho trovato il candore di chi ha saputo restare bambino, puro di fronte ai misteri dell’esistenza, e non ha contaminato la realtà con interventi razionali e astratti, ma l’ha guardata con l’anima, continuando a stupirsi e a fissare lo sguardo più lontano. Ho vissuto una dimensione a me prima sconosciuta della grandezza di Dio: un Dio che non è riconosciuto come Padre, ma che avvolge con la sua onnipotenza uomini e cose e, in un certo senso, mette l’uomo al suo posto. La sottomissione alla Sua volontà è accettata come destino inevitabile e non come adesione a un piano d’amore, ma insegna a fidarsi un po’ meno di sé e dei propri giudizi e a constatare che c’è Qualcuno sopra di noi, signore della storia. E quante altre cose ancora…
È per tutto questo che vorrei dire grazie. Ho scritto, appunto, a ruota libera, rivivendo le impressioni di quei momenti così come le ricordo, cercando di non contaminarle con la lettura che ne farei oggi. Oggi le altre culture, con ciò che le rende uniche e spesso inquietanti, le incontriamo nel ristorante sotto casa, sull’autobus, sui nostri marciapiedi: ventitré anni fa non era così, e in me c’era lo stupore di essere di fronte a un mondo sconosciuto. Uno stupore intatto».
Daniela Bignone, Oltre il velo, nel cuore del Pakistan (Città Nuova, 2013), € 9,00; pp. 120. Il libro sarà in libreria a partire da metà febbraio. Per prenotare la tua copia scrivi a: diffusione@cittanuova.it
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