Il Paese in cui si nasce stranieri

Giovani, sulla carta di Paesi esteri ma italiani di fatto, attendono di essere riconosciuti cittadini.
ragazzi

Novi di Modena, piccolo comune emiliano, ha conquistato in Italia un nuovo record: nascono qui più bambini stranieri che bambini italiani (il 51,4 per cento del totale, dati Fondazione Leone Moressa). A un primo sguardo la notizia può sorprendere, significa che domani ci saranno più cittadini stranieri che italiani a popolare questo e altri comuni dalle caratteristiche simili.

 

Ma l’anomalia sta piuttosto nel fatto che coloro che potrebbero essere italiani a tutti gli effetti vengono oggi ancora riconosciuti come stranieri. Chi sono questi bebè dagli occhi a mandorla, dalla pelle nera o mulatta, dai capelli corvini? Stranieri, per la nostra legge un po’ antiquata (91/1992), ma italiani in potenza almeno al pari dei propri colleghi di culla. È un’anomalia giuridica ma anche culturale quella che impedisce al nostro Paese di riconoscersi, in coda agli altri Paesi occidentali, come diffusamente multiculturale e multireligioso.

 

La realtà dei fatti è resa presto evidente. La popolazione straniera in Italia è ormai costituita non solo da migranti che sbarcano sulle nostre coste, quelli che tutti ci raffiguriamo con l’immagine del barcone a Lampedusa, ma soprattutto da bambini, ragazzi, giovani nati in Italia da genitori stranieri: le cosiddette “seconde generazioni” a cui stanno seguendo gradualmente le terze. “Italiani di fatto”, parlano, pensano e sognano in italiano, immaginano qui il proprio futuro, frequentano le università e popolano diffusamente i mondi delle professioni. «Non potremo diventare gli Obama italiani», si indigna qualcuno di loro sul forum della Rete G2 (http://www.secondegenerazioni.it), ma la loro voce non potrà rimanere inascoltata ancora a lungo.

 

Ci insegnano, infatti, con la loro stessa presenza che ci sono oggi molti modi diversi di essere italiani: italiani musulmani o cristiani ortodossi; italiani dagli occhi a mandorla o dalla pelle nera; italiani il cui cuore batte per ciò che accade oggi in Siria, il Paese dei propri nonni; italiani che parlano perfettamente romeno in famiglia e veneto non appena attraversano la soglia di casa, e così via. Dobbiamo a questi giovani (che sono ormai, secondo l’Istat, quasi un milione) un cambio repentino e radicale di mentalità, che porta a mutare parole, atteggiamenti, visioni ormai superate.

 

Ci è chiesto, per esempio, di aggiornare il nostro linguaggio e toglierci dalla bocca parole come “straniero” o “immigrato”, del tutto inadeguate se rivolte a un alunno della scuola o a un genitore che vive qui da trent’anni, o parole come “extracomunitario”, che suscita irrimediabilmente una sensazione di estraneità e inadeguatezza nell’adolescente a cui possiamo rivolgerla, o la più neutra parola “integrazione”, usata magari con le migliori intenzioni ma che impedisce di aprirsi all’idea di una cittadinanza compiuta e condivisa.

 

Ma ci è chiesto anche di provare a modificare i luoghi che frequentiamo. Penso alla scuola, dove gli insegnanti per primi sono chiamati a guardare ai propri alunni, tutti, come ai futuri cittadini del nostro Paese, indipendentemente dalle loro origini familiari; e dove i genitori dovrebbero accettare sempre più l’idea che i bambini “con cognome straniero” non ritarderanno il percorso formativo della classe del proprio figlio, ma rappresentano piuttosto l’occasione per aprirla al mondo attraverso percorsi formativi interculturali.

 

Ma penso anche ad altri luoghi, familiari a molti di noi, come le parrocchie e gli oratori, in cui guardare ai fedeli di altre origini come propri fratelli nella stessa Chiesa; così come luoghi magari meno conosciuti, come le moschee, dove persone di un’altra fede hanno il diritto di coltivare e condividere la propria dimensione spirituale, a beneficio di tutta la società.

 

Infine, ci è chiesto un compito più arduo ma non meno affascinante: provare a modificare il termometro della società, introducendo emozioni diverse da quelle più frequentemente diffuse. Penso alla fiducia al posto della paura, all’indignazione al posto dell’indifferenza, all’ironia al posto della rigidità mentale. Si può trasmettere fiducia anche solo decidendo di sederci, sui mezzi pubblici, accanto a una donna col velo, certi che non si farà saltare in aria! Si può diffondere l’indignazione, quando leggiamo sui giornali notizie sconcertanti, come la proposta di dedicare dei vagoni della metropolitana agli stranieri (anche quelli nati qui?) o di prendere le impronte digitali ai rom (anche ai bambini?), e commentando con altri attorno a noi queste stesse notizie. Si può infine, sciogliere situazioni di tensione attraverso l’arte dell’ironia, che più di qualsiasi emozione può aiutare ad alleggerire e trasformare la realtà attorno a noi.

 

Un trucco ci può aiutare. Quello di sostituire nel nostro immaginario l’idea di un “ospite inatteso”, che bussa improvvisamente alle nostre porte, con quella altrettanto pervasiva di un “nuovo nato”, atteso e immaginato da tempo, che prende posto dentro la nostra casa riconfigurando l’identità stessa della sua famiglia e portando in essa nuova freschezza.

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