Il nuovo gas dell’Egitto

Nei fondali profondi del Mediterraneo, al largo dal delta del Nilo l’Eni ha trovato un giacimento di gas naturale che è pari ad una volta e mezzo le intere riserve dell’Egitto, e che da solo potrebbe rifornire per dodici anni l’intero consumo del nostro paese
Eni gas Egitto

Il giacimento Zohr è a 4130 metri di profondità ed è stato raggiunto da un fondale di 1400 metri, in un’area prossima a quella in cui Cipro ed Israele si stanno contendendo il diritto di perforare altri giacimenti, chiamati Afrodite e Leviatano.

 

Zohr è un bel risultato per l’Eni, ma soprattutto per l’Egitto, paese di 84 milioni di abitanti che amano la vita, in cui nascono due milioni e mezzo di bambini all’anno, ma negli ultimi tre ne sono nati addirittura 560.000 in più: le classi medie egiziane si svenano per far studiare i figli fino all’università per offrir loro anche la possibilità di emigrare dignitosamente, ma molti bambini nascono nelle zone più povere del sud.

 

Negli ultimi decenni i governi egiziani hanno cercato di sviluppare quelle aree facendo raggiungere ovunque il metano, trasformando così il paese da esportatore a importatore di gas e petrolio, con i conseguenti condizionamenti politici.

 

Questa nuova fonte di gas, disponibile nei prossimi anni direttamente nel Mediterraneo, cancellerà le importazioni dell’Egitto, che tornerà anche ad esportare gas liquefatto tramite impianti già esistenti verso gli impianti di gassificazione italiani, francesi e spagnoli.

 

Una buona notizia per l’Egitto ma anche per l’Europa, così meno dipendente dal gas russo; una notizia un po’ meno buona oltre che per la Russia anche per Israele, che col suo Leviathan sperava di diventare per l’Egitto una fonte indispensabile di esportazione di gas.

 

Queste perforazioni su fondali profondi richiedono tecnologie fantascientifiche: esse avvengono nel buio più assoluto ed in assenza dell’uomo, che a quelle profondità può al massimo, chiuso in batiscafi, assistere a quanto fanno le gru, le trivelle ed i robot di profondità.

 

Queste trivellazioni hanno una percentuale di rischio che si ingigantisce in mari chiusi come il Mediterraneo; purtroppo, non esistendo una autorità comune in grado di imporsi sui governi dei paesi che in caso di disastro ne patirebbero le conseguenze, i vari governi decidono autonomamente le perforazioni nelle loro acque territoriali, che tendono ad estendere il più possibile.

 

Che cosa possa provocare un incidente in un pozzo di petrolio su acque non raggiungibili immediatamente da mezzi di intervento tradizionali, perché troppo profonde, lo ha insegnato il disastro nel Golfo del Messico: qui, per aver voluto fare le cose in fretta, si è provocato l’incendio e l’affondamento della piattaforma di trivellazione del pozzo Macondo, il più grande disastro ambientale della storia, la fuoruscita di settecentomila tonnellate di petrolio, bloccata solo dopo oltre cento giorni, il tempo necessario per trivellare un pozzo parallelo a quello disastrato.

 

Chi opera nel settore delle trivellazioni profonde è cosciente dei pericoli e si attrezza, se non altro pensando che i venti miliardi di dollari che la BP ha dovuto sborsare per colpa del Macondo porterebbero al fallimento quasi ogni società del settore.

 

Va dato atto all’Eni che le trivellazioni profonde per gas naturale offrono meno rischi ambientali: il gas eventualmente liberato, è già successo in quell’area anni fa, brucia senza inquinare le acque; purtroppo però nel mediterraneo orientale ci si avvia a trivellazioni profonde anche per produrre petrolio grezzo.

 

L’Unepl’agenzia dell’Onu per l’ambiente che avrebbe il ruolo istituzionale per opporsi, per ora fa solo congressi.

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