Il nodo dei paradisi fiscali
Le imposte sono il contributo commisurato ai guadagni chiesto a quanti operano nel territorio di uno stato per coprire il costo dei servizi che esso offre in modo che essi possano esercitare senza difficoltà le loro attività sociali, culturali ed economiche. Servizi sanitari, dell'istruzione, dell'ordine pubblico, della gestione del territorio, della risoluzione delle controversie, della difesa dalla criminalità, della salvaguardia dei beni culturali e dell'ambiente, la solidarietà sociale e così via sono i benefici di cui la collettività può usufruire.
Quanto più si tiene presente il corrispettivo che si ottiene per le imposte, tanto più viene in evidenza il comportamento ingiusto di chi non versa quanto deve allo stato come tasse sui guadagni ottienuti su quel territorio, sia con comportamenti illegali, che con artifici più o meno legali resi possibili dallo spostare formalmente la sua attività in stati, chiamati paradisi fiscali, in cui la imposizione può essere ridotta perché ad essa non devono corrispondere servizi, visto che in pratica le attività economiche si svolgono altrove.
In questi stati evidentemente il "bene comune" viene calcolato solo per quanto riguarda l'interno dei loro, spesso, molto ristretti confini: essi considerano conveniente riscuotere imposte senza offrire in cambio servizi, se non quelli di diventare complici di atti criminali di evasione. In queste nazioni si approfitta del poter legiferare in proprio, quali stati indipendenti per rendere legale, fino a che la comunità internazionale lo continuerà a permettere, l'appropriarsi privato di risorse che dovrebbero essere riservate alle comunità in cui si è operato, se non di rendere con approccio pilatesco legali la proprietà di capitali di provenienza criminosa rendendone possibile il riciclaggio.
Chi vi opera sa che la loro possibilità di legiferare può ritorcersi loro contro, se ne sono accorti in questi giorni i magnati russi che hanno visto il governo di Cipro trasformare una parte consistente dei loro depositi nelle banche del paese in azioni delle banche stesse, di valore molto dubbio. Non per nulla i paradisi fiscali che vanno più di moda sono le isole del Canale della Manica o quelle dei Caraibi, che risultano più credibili perché adottano la legislazione della Gran Bretagna di cui sono ex colonie: comunque poi i depositi dei finti operatori di quei paesi vengono dirottati nelle banche europee o statunitensi, che appaiono più sicure.
Il fatto ultimo che siano stati dati alla stampa gli elenchi segretissimi di tantissimi titolari di conti di alcuni paradisi fiscali sta creando un notevole scompiglio, con l'effetto positivo di rendere meno attraenti tali pratiche, anche se chi le usa in modo professionale di solito utilizza intermediari che spesso garantiscono ancora l'anonimato dell'utente finale.
L'esistenza dei paradisi fiscali è uno dei nodi importanti dell'era della globalizzazione ancora da sciogliere: se i grandi stati lo volessero, sarebbe a mio parere molto facile scioglierlo, basterebbe che essi rendessero non più legalmente esigibili nel loro territorio i beni dei loro cittadini depositati negli stati che non sono disponibili a comunicare periodicamente alle loro autorità fiscali le informazioni finanziarie riguardanti gli stessi.