Il mondo si può cambiare
Venezia, 4 settembre. Ken Loach, inglese di 76 anni, aria da attivista sociale impegnato, sfavillante di idee giovanili, è emozionato quando il patriarca Francesco Moraglia, per la prima volta alla mostra del cinema, gli consegna il tredicesimo Premio Bresson a nome dell’Ente dello Spettacolo. Sembrano antitetici i due personaggi, «il diavolo e l’acquasanta», commenta qualcuno, con riferimento alle diverse “carriere”. Loach, che non ha mai nascosto le sue simpatie per la sinistra, sempre attento ai problemi sociali – è nato in una famiglia operaia – e l’ecclesiastico sottile, convinto che «il cinema è una benedizione».
Ma, a ben vedere, i due si intendono. Entrambi infatti sottolineano che l’uomo deve ritornare al centro dell’indagine cinematografica. Loach (Premio a Cannes 2006 con Il vento che accarezza l’erba) è artista convinto che «la speranza è nei lavoratori. Qualcosa certo cambierà – continua –, anche se il problema non è quando, ma come. Certo, il cinema in tutto ciò può fare poco, è una voce in un coro poderoso».
«Ma vale la pena lottare per gli ultimi», gli fa eco il prelato. Che è appunto la motivazione del premio Bresson ad un autore che ha sempre privilegiato nella sua indagine gli ultimi e l’anelito, la lotta per un futuro migliore dell’umanità.
Forse alcuni non si aspettavano una simile concordanza di vedute fra i due personaggi, ma in fondo si vede che se si ama l’uomo le strade finiscono per incontrarsi.
Simpatia reciproca, quindi, e rispetto. I due si lasciano fotografare e intervistare insieme a don Viganò, presidente dell’Ente dello Spettacolo, e all’attrice Valentina Cervi, madrina dell’evento. Rapido comunque e senza troppi cerimoniali, come piace al concreto e vivace regista britannico.