Il mondo ha dimenticato l’Iraq?
Incontro monsignor Shlemon Warduni (al centro nella foto), ausiliare dei caldei a Baghdad, al Cairo in occasione di un convegno ecumenico di vescovi di 22 Chiese. L’ho visto in molte altre occasioni e mi ha sempre colpito il suo tratto gentile e delicato. In questi giorni, spesso, l’ho visto accompagnare un confratello vescovo che ha difficoltà a spostarsi. Lo fa con discrezione, ma è sempre attento all’incedere affaticato dell’altro: un segno reale e concreto del servizio che il vescovo è chiamato a vivere come suo ministero. Chiaccherando con lui, mi sorprende il pensiero che il mondo abbia abbandonato l’Iraq e gli giro la domanda, quasi a bruciapelo. Iniziamo un’intervista che lui accoglie con piacere.
L’Iraq non fa più notizia….
«È vero! Pare proprio che il mondo abbia dimenticato l’Iraq. Ma questa è l’abitudine degli uomini, che cercano sempre avvenimenti clamorosi. Si sente parlare dell’Iraq o se ne legge solo quando ci sono esplosioni con centinaia di morti o, almeno, con qualche decina di vittime oppure, ancora, quando ci sono grandi sciagure. Nessuno si interessa delle cose piccole, quelle di tutti i giorni. In Iraq le ostilità sono diminuite, ma non sono cessate del tutto. Anzi, non passa giorno senza un atto terroristico dove qualcuno resta ucciso o, perlomeno, senza assistere all’esplosione di un ordigno».
Com’è attualmente la vita quotidiana?
«Non è tranquilla. Non c’è ancora una pace sicura e nemmeno una sicurezza stabile. Certamente la situazione è migliorata e continua a migliorare, ma la gente aspetta che cessino del tutto le ostilità. Ciò che tutti desiderano è una vera riconciliazione nazionale. E questo è un punto di arrivo ancora lontano. Infatti, non abbiamo ancora un governo stabile e continuano le discordie fra diversi gruppi. La gente, tutti noi, ci aspetteremmo una concordia che dia stabilità e che possa essere duratura senza interessi personali o del proprio gruppo religioso o politico».
Quando parla di tensioni, si riferisce a contenziosi politici, sociali, religiosi?
«Oggi, le tensioni in Iraq sono di tutti i tipi. Ci sono tendenze diverse sia a causa dell’appartenenza religiosa che dell’affiliazione politica. Tutti vorrebbero controllare i vari gruppi politici. Ciascuno vorrebbe avere tutta la torta per sé, anche se questo significa lasciare morire di fame gli altri. Prendiamo la questione del lavoro. I posti che sono disponibili vengono distribuiti a quelli del proprio schieramento politico, della propria comunità religiosa o del gruppo sociale di appartenenza».
Oggi c’è da mangiare in Iraq?
«C’è da mangiare, certamente. D’altra parte, c’è anche una diversa possibilità di acquisto degli alimenti. Intere sezioni della popolazione, per esempio, non possono permettersi di avere tutto ciò che desidererebbero: costa troppo caro».
La classe politica si sta ricostituendo dopo anni di dittatura e di guerra?
«È molto difficile dirlo, perché, come accennavo, manca la stabilità politica che permetta di vederci chiaro. Inoltre, la situazione è molto fluida e molti cambiano costantemente direzione o affiliazione politica».
I cristiani come si collocano in questo panorama?
«In genere, i cristiani non sono mai intervenuti nella vita politica del Paese e, quindi, non erano preparati a questa fase. Inoltre, non esisteva la libertà politica o di pensiero, ma solo la linea politica del partito Ba‘th. In tempi recenti alcuni cristiani, incoraggiati anche dalla Chiesa, hanno cominciato a fare qualcosa in ambito politico. D’altra parte, si tratta di persone inesperte, anche se la Chiesa favorisce questo loro impegno come laici. A questo bisogna aggiungere che la maggioranza degli altri partiti è religiosa e l’atteggiamento di base non è quello della concordia, ma dello scontro dei vari gruppi, l’uno contro gli altri. Questo è causa di preoccupazione perché esiste il pericolo reale di perdere tutto. La Chiesa attualmente è impegnata a incoraggiare l’impegno dei cristiani a unire le varie forze per poter ottenere e realizzare qualcosa di concreto e di positivo per la comunità cristiana».
In generale, la comunità cristiana come si sente oggi nel Paese?
«Ho detto della situazione generale che è tutt'altro che sicura. Questo spinge ad andare altrove per trovare un posto adatto alla propria famiglia, al futuro dei figli e, soprattutto, dove si possano vivere ed esprimere le proprie convinzioni religiose. L’emigrazione è ormai diventata una malattia e si tratta di qualcosa di contagioso e pericoloso, perché non fa pensare alle proprie tradizioni e alla ricchezza della nostra storia passata. Direi che oggi anche il feto nel grembo materno pensa già ad emigrare».
Monsignor Warduni, cosa direbbe ancora dal profondo del cuore?
«Desidero rivolgermi al mondo, per dire: "Unite le forze per incoraggiare la pace!". Desidererei vedere i diritti umani realizzati per tutti e senza discriminazione di alcun tipo. Mi rivolgo anche ai cristiani nelle varie parti del globo. Seminate la cultura dell’amore e del dialogo per percorrere la strada che porta alla pace. E poi sono convinto che il mondo dovrebbe condannare le fabbriche di armi, soprattutto quelle nucleari».