Il mondo di Narayan

Alla scoperta di Chennai, la metropoli che ha visto nascere il grande vecchio della narrativa indiana. Uno che ci guida alla scoperta dell’uomo con profondità e leggerezza
Tempio Kapaleeswarar di Mylapore foto di Mohan Krishnan

Chennai o “Porta del Sud”, un tempo conosciuta col nome di Madras, già colonia portoghese prima di passare sotto il controllo della Francia e poi dell’Inghilterra, è una città di circa sei milioni di abitanti affacciata sul Golfo del Bengala (India meridionale), capoluogo del distretto omonimo nello Stato federato di Tamil Nadu, di cui è la capitale. La moderna metropoli ha inglobato nei suoi quartieri del centro la Madras di un tempo e l’antica città di Mylapore, il cui sovrano avrebbe accolto l’apostolo Tommaso, che nel 72 –  sempre secondo la tradizione – terminò martire i suoi giorni su una collina oggi alla periferia di Chennai. Testimonia i passati fasti di Mylapore il tempio di Kapaleeshwarar (nella foto), dedicato al dio Shiva e risalente al VII secolo d. C.  La sua mole turrita, nel caratteristico stile dell’architettura dravidica, è tutta un ricamo di sculture; fanno parte del complesso cortili e santuari minori adorni di notevoli immagini di divinità, tra cui la dea Parvati raffigurata sotto l’aspetto di un pavone.

Di Chennai abbiamo avuto notizie in anni recenti a causa del devastante tsunami che nel dicembre 2004 ha colpito la sua costa. Ma non di questo tragico evento mi accingo ora a parlare, bensì di un personaggio nato a Madras nel 1906 e scomparso nel maggio 2001 all’età di 95 anni, che è stato uno dei più importanti, se non il maggiore fra i nuovi scrittori anglo-indiani del Novecento: Rasupuram Krishnaswami Narayan, oggi noto anche in Italia grazie all’interesse che sta suscitando da noi la narrativa indiana.

A parte qualche viaggio all’estero, Narayan è vissuto sempre in India, rimanendo estraneo agli ambienti letterari alla moda. E questa fedeltà alle sue radici, nonostante il successo mondiale, fa di lui una voce genuina di questa terra che non finisce mai di affascinarci. Ammirato da Graham Greene, insignito di prestigiosi riconoscimenti e per anni candidato al Premio Nobel, Narayan segna una svolta nella letteratura anglo-indiana, perché si distacca dal progetto puramente didattico dei predecessori per perseguire una sua poetica espressiva all’insegna della «profondità con un tocco di leggerezza», per dirla con parole sue.

La maggior parte dei suoi trentacinque romanzi (non pochi dei quali tradotti dalla milanese Marcos y Marcos) è ambientata a Malgudi, immaginaria, ma non per questo meno realistica cittadina dell’India meridionale, compendio di tutto il variegato e contraddittorio mondo indiano sempre oscillante fra tradizione e modernità. Qui egli sembra aver dato convegno a tutti i tipi umani coi loro pregi e difetti, delineandoli con tocchi di irresistibile ironia e al tempo stesso con grande partecipazione umana.

Lo si può paragonare ad un altro grande vecchio della letteratura, all’egiziano Nigib Mahfuz, anche lui creatore di personaggi indimenticabili che popolano un suo microcosmo ambientato al Cairo. Ma in Narayan è più spiccata la vena umoristica.

«Se mi si chiedesse come nasce un racconto – ebbe a dire una volta -, non saprei rispondere. Posso solo dire che ho trovato il materiale per le mie storie fuori, nei mercati e nelle strade di Mysore. Godevo di una grande libertà, nessuno della mia famiglia badava al fatto che guadagnassi poco. Leggevo, cercavo di scrivere e uscivo a fare lunghe passeggiate costeggiando le vasche d’acqua, nei parchi e lungo i viali, o mi arrampicavo sulla collina che si vede dalla nostra città; in altri momenti osservavo la folla del mercato – non alla ricerca di un soggetto, ma per il puro piacere di guardare la gente…».

Un esempio della sua narrativa? Eccone uno, rappresentato dal caleidoscopico romanzo Il nostro amico Sampath. La trama: Srinivas non resiste, l’atmosfera del villaggio è così soffocante che non esita ad abbandonare moglie e figlio per avviare un giornale in città (ovviamente Malgudi). Disposto a lavorare giorno e notte, inpara ad assaporare la solitudine: i suoi unici interlocutori sono i lettori, silenziosi e distanti. Ma non può durare. La moglie lo raggiunge, il padrone di casa pretende di fargli cercare un marito per la nipote prediletta, il vicino gli confida le sue pene d’amore. Soprattutto deve fare i conti con Sampath, l’unico tipografo che accetti di stampare il suo giornale: apparentemente servizievole, in realtà ostinato e indipendente, provocherà una svolta nel futuro di Srinivas, decidendo all’improvviso di interrompere la stampa del giornale.

La nuova attrazione è il cinema, «la quinta industria del Paese»: Malgudi si popola di scenografi, registi, primedonne, alimentando la propria Bollywood” (così viene chiasmata in India la mecca del cinema). E pensare che l’esordio di tutto è stata una domanda “esistenziale” di Srinivas: «I miei bambini, la mia famiglia, la mia responsabilità – salvaguardare la mia dignità, adempiere ai miei obblighi verso la famiglia – ma chi sono io? Questo è il problema di gran lunga più importante di qualsiasi altro abbia mai affrontato. È una grave questione e la devo risolvere. Finché non so chi sono, come faccio a sapere cosa devo fare?».

Ne Il mio amico Sampath Narayan mette in scena, con la consueta ironia, personaggi che si scoprono a poco a poco diversi da come pensavano di essere, ma che non smentiscono mai la propria indole autentica. Grazie a questo Cechov indiano (così è stato definito per il suo acuto senso del tragicomico), sappiamo come si è felici ed infelici in India, ma non solo: siamo portati a riflettere su noi stessi in quanto la sua straordinaria capacità narrativa riesce a persuaderci che la vita e i personaggi che racconta rappresentano l’essenza della natura umana, caratteri esemplari capaci di parlare agli uomini di ogni tempo. Con profondità e leggerezza, appunto.

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