Il mito del nuovo
Ogni tanto nella storia del mondo rispunta il mito del nuovo. Appare ricco di promesse, in grado di cancellare con un colpo di spugna il passato corrotto e oscuro e di spalancare le porte a una nuova era. Compare nell’arte, nei costumi, nella politica (campo in cui ha operato e può operare effetti drammatici). Essendo un “mito”, ha la sua assolutezza e sacralità: si alimenta d’irrazionalità, di slogan, impone la fretta, porta ad agire senza più aspettare.
Quando freme il vento elettrizzante del mito del nuovo, l’antico proverbio tedesco che ammonisce a fare attenzione di non «buttare via il bambino con l’acqua sporca» viene messo da parte con un sorriso ironico. Disfattisi del vecchio, poi, si comincia ad allestire il “nuovo”, rifacendo quasi sempre gli stessi errori contro i quali si è combattuto e dai quali si è festeggiata la liberazione. Gli esempi nelle storia sono troppi, non vale la pena elencarli. Voglio invece soffermarmi sulla riflessione che, mentre imperi, repubbliche, dittature e varie formule politiche, hanno un tempo limitato e poi si dissolvono, le religioni godono d’una invidiabile longevità.
Il segreto? Sta nel valore che esse danno alla tradizione. È vero che a uno sguardo inattento sembrano lente. Rispetto alle esuberanti formule politiche, ricordano le testuggini marine che coi possenti piedi appoggiati sulla spiaggia paiono dormire sotto il pesante guscio, ignorando i venti e le onde ruggenti dell’oceano. Poi però sanno muoversi verso l’acqua e nuotare con grazia sorprendente. Le religioni hanno compreso che la novità può poggiare i piedi solo sulla tradizione. Innovare significa salire uno scalino della scala della storia dell’umanità. Inseguire il mito del nuovo significa gettare via la scala e costruirne un’altra.
La natura però insegna che non esistono scorciatoie, che non ci sono ascensori. Gli uomini e le donne sono sempre gli stessi, con gli stessi problemi, le stesse pulsioni, a qualunque idea facciano riferimento. In ogni gruppo sociale, politico o religioso, c’è più o meno, la stessa distribuzione di persone volenterose e indolenti, buone e cattive, geniali e meschine. La tradizione permette di rimanere in contatto con la realtà della natura umana. Ovviamente non garantisce la perfezione: spesso si arena, si contamina di elementi spuri. Allora intervengono le novità, che inserendosi in essa senza ripudiarla, la aiutano a ripulirsi, a rimanere sempre giovane. La novità fa progredire. Il mito del nuovo, pur eccitante e luminoso, è un miraggio che presto si dissolve: è la caricatura della novità.
Ogni scienziato, ogni artista sa che per dire “qualcosa di nuovo” deve essere un maestro della tradizione che è stata prima di lui. Solo allora può innalzare la propria critica e portare la propria novità (questo fatto viene invece spesso ignorato quando si tratta di politica). Anche ogni carisma che compare nella Chiesa porta novità solo se comprende la Tradizione e si inserisce in essa. Altrimenti, dopo qualche momento di sfavillante vitalismo, si affloscia penosamente e, o soccombe, o si trasforma in qualcosa di inutile e irriconoscibile rispetto alla propria originalità.
La tradizione ovviamente può essere malintesa. Chi si ferma ad essa senza mescolarla alla propria individualità, alla propria novità, diventa un tradizionalista, patetico difensore d’un passato inesistente. Martin Buber scriveva: «La tradizione è la più nobile libertà per la generazione che la vive con tutti i suoi sensi, ma è la schiavitù più ignobile per gli eredi passivi che la accettano inerte e rigida».
Chi accoglie dentro di sé la tradizione non è mai tradizionalista. Spesso è il più genuino degli anticonformisti. Perché non agisce per esibizionismo, ma sa inchinarsi a un potere più alto, al di fuori di sé, e può così accedere alle esperienze trascendenti che rendono significativa la vita. Non si lascia ingannare dalla moda passeggera della sua epoca, ma sa respirare a pieni polmoni la propria irripetibile libertà.