Il mistero del nomadismo braccato
Che rapporto hanno gli zingari con il Vangelo? Tentativi di risposte.
Sono trentasei milioni nel mondo. È solo una stima perché un censimento vero e proprio degli zingari non c’è mai stato. Presenti dappertutto, dall’Australia al continente africano, così come sottocasa, nelle periferie delle grandi città italiane. C’è qualcosa di irriducibile che non li rende facilmente assimilabili, suscitando fastidio in chi non sopporta la loro diversità.
Nella Milano degli anni Cinquanta, quando la via Gluck era ancora circondata da un paesaggio campestre, un pretino vede le carovane dei gitani e riceve la vocazione a seguire «i camminanti», per vivere con loro il Vangelo. «Vediamo cosa combini», gli dice Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI.
Sono gli anni in cui le coscienze più sensibili sanno scrutare, dietro le liturgie e le strutture rassicuranti, l’avanzare della città del consumo di tutto, che rende inconcepibile la percezione dell’Altro. Dall’abito talare con collettone bianco al volto del sacerdote anomalo, con il cappello da zingaro e la roulotte come casa, si snodano 57 anni di una vita, quella di don Mario Riboldi, animata da una passione missionaria che prima dell’annuncio vuol dire presenza, ascolto, rimettersi sempre in gioco fuori da ogni schema prestabilito.
Sono cambiati i tempi. Gli spazi per i mestieri itineranti sono sempre più ridotti: non più giostrai, calderai e commercianti di cavalli. Resta comunque l’identità di un popolo dall’origine misteriosa, con un proprio codice di comportamento, una concezione del tempo puntata sul presente, una scarsa predisposizione alla stanzialità che, sia detto per inciso, qualche problema lo produce dai tempi di Caino ed Abele.
Ed è proprio nel riferimento al testo biblico che si snoda la catechesi di don Mario. Il richiamo più forte che si percepisce è quello ad Abramo che “esce dalla sua terra” e per salvarsi deve anche arrivare a mentire. Ogni comunità minacciata nella sua esistenza ha usato questo espediente suscitando inevitabile sospetto e pregiudizio.
Fino all’orribile fuoco dell’Olocausto acceso nel Novecento che si è alimentato anche della vita di non meno di mezzo milione di esseri umani considerati di stirpe ariana, per la loro provenienza dall’India, ma ormai “corrotta” secondo il ministero della salute nazista. In Italia, le famiglie dei gitani vennero internate nei campi di concentramento di Agnone in Molise, il dolce paese dove si costruiscono campane.
In questi tempi, accanto a seri problemi di integrazione che non vanno ignorati, si possono leggere rapporti di organizzazioni non governative che lanciano appelli per il rispetto dei diritti dei nomadi che vengono spostati, senza preavviso, dai loro accampamenti, magari dopo anni di un paziente lavoro di integrazione. Decisioni dettate dal’emergenza di problemi di convivenza che, per lo meno in Italia, sembra strano evocare, visto che gli zingari rappresentano solo lo 0,23 per cento della popolazione. In buona parte si tratta, nel caso del gruppo dei sinti, di cittadini italiani con tanto di intonazione dialettale riconoscibilissima.
Il mistero del popolo gitano preso in un rapporto originale e unico con Dio ha segnato il percorso di tanti preti, religiosi e suore che ne hanno condiviso il destino senza voler essere solo dei mediatori culturali. Qualcosa di inconcepibile per chi vuole essere sicuro dei frutti al momento della semina ed è ossessionato dalle statistiche, rifiutando, perciò, lo scandalo di una donazione che nulla chiede. E che, nei tempi inaspettati, “tutto riceve” come hanno osservato negli ultimi tempi don Mario e padre Luigi Peraboni, barnabita, che girando assieme l’Europa, e non solo, hanno messo in luce storie di vocazioni tra i rom e i sinti. Come l’annuncio, dopo un millennio dal’inizio del cammino, di una possibile nuova evangelizzazione che nasce all’interno della grande “nazione senza territorio”.
È quanto hanno messo in evidenza nell’ultimo incontro della Pastorale per gli zingari in Europa, tenutosi a Roma nel marzo 2010, non nascondendo tutti i problemi irrisolti a cominciare dalla tentazione ricorrente di misconoscere o rinnegare le proprie radici che sono, invece, tutte presenti nella storia di Ceferino Jimenez Malla, detto familiarmente “El Pelè”. Un laico sposato, commerciante di bestiame, senza istruzione, riconosciuto beato dalla Chiesa cattolica nel 1997. Uomo di pace contrario alle sopraffazioni tanto da venir fucilato nel 1936 dai miliziani di quel governo repubblicano spagnolo che nella feroce persecuzione anti cristiana gettò le basi per la propria sconfitta.
Il giorno di Ceferino, piazza san Pietro si protese in un abbraccio ad un popolo che ama far festa mentre dalla basilica si esponeva l’arazzo de “El Pelè” raffigurato con la camicia da contadino e un cavallo bianco. Segno di un cammino da proseguire, come un mite san Giorgio pronto a combattere il drago della divisione e del pregiudizio per una storia che rimane ancora da scrivere.