Il miracolo di Nicola di Verdun
L’anno che ci siamo appena lasciati alle spalle ha assistito, al pari di noi poveri mortali, al palleggio di una diatriba che aveva come oggetto le radici cristiane dell’Europa. L’Europa, si obiettava, non era figlia del secolo dei lumi? Non mi addentro nei rapporti di paternità di una creatura che ancora stenta a venire alla luce. Tuttavia, parlando non di parentele ma più propriamente di radici dell’Europa, non c’è dubbio alcuno che esse affondano nell’humus, nel patrimonio dottrinale e nella quotidianità originati dalla penetrazione del messaggio cristiano nel vissuto dell’uomo. E se tra queste radicifilosofiche, giuridiche, economiche o letterarie vogliamo cercare quelle che hanno particolare attinenza col mondo dell’arte, allora i dubbi sorti in quel fazzoletto di terra tra Mosa e Marna, tra le Ardenne e la Lorena, sembrano proprio fuori luogo. E questo perché per oltre un secolo prima di Giotto il baricentro artistico dell’Europa, che si era spostato nel corso della storia da una all’altra delle regioni del continente, aveva fissato proprio lì le sue tende. Proprio lì tra Citeaux, Clairveaux e Prémontré – ancora illuminate dai bagliori della riforma monastica – e tra le città di Reims e di Strasburgo, confluirono tutti i succhi figurativi del continente che purtroppo in quel tempo erano contenuti prevalentemente nelle pagine di codici, lezionari, antifonari miniati o lumeggiati e quindi difficilmente accessibili al nostro sguardo. Lo splendore di Bisanzio, i fantasiosi spunti dialettali di Canterbury, del nord Italia e della Guascogna, i residui linguistici carolingi e ottoniani si mescolano, si stemperano e spesso si snaturano in una specie di turbine che sembra sconvolgere tutte le correnti. E così succede l’irreparabile! In periferia le varie correnti continuano nel loro binario figurativo per quasi un secolo con un irretimento tecnico e tematico sconcertante. Al centro, che per comodità fissiamo nei territori della Lorena, il processo di accelerazione degli scambi produce la scintilla che in pochi decenni, dopo una iniziale incertezza come avviene in tutti i fuochi, diventerà un incendio: la scintilla del gotico. Un artefice in pittura di questa scintilla è il nostro Nicola di Verdun, assieme a quel maestro vetraio che ha lavorato a Reims per la chiesa di Saint-Rémi e al pittore della terza vita di sant’Amando nel codice di Valenciennes. Siamo allo scadere del dodicesimo secolo e allora, dando libero corso alla fantasia, l’immaginazione ci propone una festa quando le 51 lamine, lumeggiate d’oro e di smalti prezio- si, composte sulle rive della Mosa, vengono sbarcate sulla riva destra del Danubio subito dopo che il fiume ha superato il gomito del Wiener Wald. Qui nella basilica di Klosterneuburg il prezioso carico d’arte viene montato a comporre un ambone che un incendio del secolo dopo non è riuscito a distruggere. Così oggi queste stupende placche di Nicolaus Virdunensis, come lui stesso si firma, orafo e pittore, massimo rappresentante della scuola mosana di smalti, considerato universalmente uno dei più grandi artisti del medioevo, sono visibili riassemblate sull’altare della Leopoldskapelle. Grabar nel fondamentale studio sulla pittura romanica lo testimonia come ispiratore dei maestri miniatori lorenesi dell’epoca; il Nordenfalk sulla Storia della miniatura romanica ne rileva i significativi mutamenti linguistici; il Bologna ne parla come del punto più alto e solenne della scuola mosana; infine il Longhi nel paragone tra arte italiana e arte tedesca vede affacciarsi il miracolo di Nicola di Verdun. Ma quale è il miracolo, se di miracolo si può parlare nel mondo dell’arte? Più semplicemente potremmo dire che in queste scene, la certezza e la solidità compositiva sono ancora tardo-medioevali, mentre nuovo è lo spirito che le anima. È come se dalla splendida trama connettiva rilevata in oro che unifica il tutto, una forza misteriosa ponesse in risalto, imponendole allo sguardo del visitatore, le varie icone composte nelle stazioni del racconto sacro. Un racconto che inizia con la lapidaria sintesi dottrinale espressa dalla figura di Abramo quia tres vidit et Unum adoravit; e che si conclude, sotto le ginocchia del Cristo giudice, una originalissima raffigurazione dell’inferno che raccoglie una dozzina di dannati, accestiti come cespo rosso di radicchio, in una fauce spalancata pronta ad inghiottirli. Nel suo insieme il dossale dà l’impressione di una fontana che continua a zampillare variazioni di sintassi figurativa e ideazioni iconografiche di ogni tipo, come quella rappresentazione dello Spirito Santo che solo la fantasia di un pescatore di Egina o di un maestro vasaio cretese poteva partorire. Se poi si guardano i pannelli del dossale ad uno ad uno, ci si accorge che la vivacità dei movimenti, l’espressività dei volti, la spontaneità stessa dei gesti concorrono a suggerire che, in questo racconto per immagini che Nicola di Verdun fa della storia dell’incontro di Dio con l’uomo, tutto è giovane, primaverile e, a volte, imprevedibile come quel profeta Elia che, consegnato il mantello a Eliseo, sale al cielo in un carro che, anziché di fuoco, è composto in una gamma di freschissimi, stupendi colori. È simpatico pensare ai monaci agostiniani di Klosterneuburg quando nell’anno di grazia 1181 sitrovarono davanti agli occhi la rappresentazione di personaggi inediti per le barbe incolte e le capigliature arruffate e per le vesti indossate con foggia originale. Loro abituati da una vita a vedere raffigurati nei muri delle chiese e nelle pagine delle biblioteche processioni di chierici dal capo tonso con occhi da libellula che si affacciano su volti glabri, e di presbiteri canuti, stilizzati e stipati nella naftalina di un antico telaio grammaticale. Era il primo segnale, nel mondo dell’arte, che il messaggio cristiano e con esso la storia della chiesa stava uscendo ancora una volta in mare aperto lasciandosi alle spalle l’inerzia liturgica della vincolante normativa bizantina e la soffocante cappa protettiva di un esausto potere medievale. Negli anni a seguire la Gallia belgica da terra di confluenza di apporti culturali diverrà centro di irraggiamento del nuovo linguaggio gotico; e Parigi, afferratone saldamente il comando, approfitterà di favorevoli condizioni storiche per promuoverne la diffusione in tutto il continente. Risultato finale, reso possibile in seguito col contributo determinante di Simone Martini, sarà il delinearsi di un’altra delle radici cristiane d’Europa: quella del Gotico internazionale.