Il mio Paese indomito (Uruguay)

Intervista a Julio Maria Sanguinetti, già presidente della Repubblica uruguayana. Uno sguardo benevolo e intrigante su un angolo unico e irripetibile dell’America Latina
Julio Maria Sanguinetti

Come legge la visita del papa argentino al continente sudamericano avvenuta lo scorso agosto?
«La visita del papa a Rio de Janeiro ha prodotto un grande impatto a livello mondiale. Il papa ha definito una nuova politica della Chiesa a livello della società, aperta alle zone di povertà della società. Non ha nascosto nessun tabù, ha parlato dei problemi morali che ha sofferto la Chiesa e della sua urgenza di affrontarli. Credo che sia un atteggiamento molto vigoroso e che la gente abbia compreso. Basti vedere quello che è stata la risposta popolare in Brasile. Impressionante. Questo io lo percepisco come qualcosa di importante. Non sono cattolico né credente, ma credo che una Chiesa prestigiosa sia parte della fortezza dell’Occidente, del mondo occidentale, della nostra civilizzazione. Per questo ho visto con molto interesse e gioia questa presenza e questo discorso».

Come sono i rapporti tra Chiesa Cattolica e istituzioni statali uruguaiane in questo momento? La storia dalla separazione ad oggi è lunga…
«L’Uruguay ha uno Stato laico da antica data. Il processo di secolarizzazione qui è iniziato molto presto. Nel 1864 sono passati all’amministrazione statale i cimiteri, nel 1876 è cominciata quella che è chiamata “scuola laica, gratuita e obbligatoria”. Prima di Jules Ferry in Francia. Naturalmente, alla fine del secolo XIX ebbero luogo i grandi dibattiti che sono successi dappertutto e, alla fine, nel 1917, la Chiesa è stata separata dallo Stato. Credo che ciò abbia fatto molto bene allo Stato e molto bene alla Chiesa. Abbiamo una convivenza molto normale, ed anche il concetto di laicità si è arricchito con un’accezione più plurale. Laicità, come ha detto anche il papa ora, non è un atteggiamento contro la religione, bensì la neutralità dello Stato verso le diverse religioni. E questa è la tradizione del nostro Paese. Quando ero presidente ricevetti due volte Giovanni Paolo II, e proposi che rimase dov’era la grande croce che si era eretta sul luogo dove il papa celebrò la messa…».

E come mai è rimasta?
«Fu un dibattito parlamentare fantastico, che Giovanni Paolo II non ha mai dimenticato. Tornando all’aeroporto, io gli dissi: “Penso che quella croce dovrebbe rimanere lì, come un ricordo storico della visita del primo papa che ha messo piede in Uruguay”. La Chiesa, che aveva eretto la croce, l’ha donata al comune di Montevideo. Si riunì il Consiglio comunale e rifiuto quella croce, perché diceva che un oggetto di culto di una religione particolare non doveva rimanere in uno spazio pubblico. Io insistetti, come presidente, e come presidente agnostico, sul fatto che la nostra laicità è tolleranza, che la maggior parte del Paese è cattolico ed è assurdo che non abbiamo rispetto per loro. La nostra cattedrale è ad esempio un monumento storico nazionale. Il Tempio inglese, la cattedrale anglicana, è anch’esso monumento storico nazionale. Così doveva essere per la croce di Giovanni Paolo II. Alla fine, la questione fu discussa in Parlamento, come progetto di legge. Si divisero trasversalmente tutti i partiti. Per esempio, io agnostico ero a favore della croce. Il mio vicepresidente, credente, diceva di no, dicendo: “È da un secolo che questo tipo di cose non si discutono più, sono state risolte, non voglio sentire parlare di croci, di Stato e Chiesa… Non occorre aprire di nuovo questo dibattito”. Tra i comunisti, alcuni votarono a favore della permanenza della croce, alcuni contro. Alla fine, la legge fu approvata e la croce è ora l’unico monumento storico che è tale in base a una legge specifica. Gli altri sono tali per mezzo di decreti che emanano da una legge generale».

Lei è stato protagonista del passaggio più importante della storia recente del Paese, quello dalla dittatura alla democrazia. Lei ai tempi della dittatura era già in Parlamento, molto giovane, aveva 27 anni. Nella transizione ci furono accordi ai quali non tutte le forze politiche aderirono. La sinistra, per esempio, si chiamò fuori.
«È questo un tipo di transizione sempre difficile, ogni Paese ha avuto la sua e l’ha fatta a modo suo. La Spagna era la nostra grande fonte di ispirazione. Loro hanno voltato pagina ed hanno guardato avanti. La prova del fuoco fu quando arrivò il socialismo al potere, e il primo ministro Felipe González seppe andare oltre. Noi abbiamo camminato su questa idea. In Argentina fu diverso. Ci furono dapprima alcuni processi alle giunte militari e poi si tornò indietro, perché ci furono turbolenze dei guerriglieri e dei militari, e si promulgò una legge di “punto finale” e di “obbedienza dovuta”. In Uruguay prima ci fu una legge di amnistia ai guerriglieri e, in un secondo momento, una legge di amnistia ai militari. Questa fu impugnata con un referendum e fu ratificata nel referendum. E vent’anni dopo, ora, nelle ultime elezioni politiche, nelle quali si stava eleggendo presidente un ex guerrigliero, la legge fu ratificata di nuovo. Quindi io credo che tutto ciò ci parla di un Paese che ha cercato la riconciliazione. Ci sono stati processi ad alcuni militari, fatti in base ad una interpretazione un po’ abusiva della legge, ma in ogni caso ciò che non è discutibile sono due cose: che questo processo ha avuto appoggio popolare e che le leggi di amnistia sono state efficaci. Non ci sono più state in effetti recrudescenze guerrigliere, né militari. Questo credo che dia una definizione precisa del successo della transizione».

In questa legge si stabilisce per il periodo della dittatura la “caducità della pretesa punitiva dello Stato” è così?
«Sì. Ma si tratta di una circonlocuzione semantica. Perché non si voleva parlare di amnistia per i militari. Allora siamo ricorsi al dizionario e abbiamo trovato sotto la voce “amnistia” la definizione: “Caducità della pretesa punitiva dello Stato”. Punto. Quindi invece di scrivere amnistia si è denominata la legge con quella definizione un po’ strana. Ma è un’amnistia».

Una delle cose che hanno fatto più discutere durante la sua amministrazione sono le “zone franche”. Sono state efficaci? Lo sono ancora? Oppure hanno esaurito le loro potenzialità?
«Sono state straordinariamente efficaci, hanno dato grandi risultati. Hanno permesso grandi investimenti. Da lì si muove molta attività di logistica, di servizi, di servizi finanziari, etc. Ora si sta parlando di modificare la legge che le ha istituite e che le regola, ma non di cambiarne il concetto. Sono state molto utili e continuano ad essere utili. Senza dubbio».

Anche i partiti di sinistra sono d’accordo?
«Sì. Inizialmente erano contrari, ma ora sono favorevoli, come è successo in altri casi. Prima erano opposizione ed ora sono governo. E il governo insegna ed obbliga. Lo stesso è accaduto con l’industria della cellulosa. Erano contrari all’industrializzazione del legname, poi è venuto il presidente Tabaré Vázquez, ha chiesto un’ispezione a un’azienda straniera, ha visto che era tutto in regola, ed ha cambiato posizione. Credo che questo sia intelligente».

E con l’Argentina come vanno le cose?
«Male. Le relazioni tra i governi vanno male. Nella società no. La gente no. Noi uruguayani andiamo tutto l’anno a Buenos Aires, che ci piace molto, o a Córdoba, o a Bariloche, e gli argentini praticamente ci “occupano” il Paese nei tre mesi dell’estate. E non c’è nessun problema. Nel peggior momento del dibattito per la fabbrica Upm di pasta di cellulosa, i presidenti non si salutavano, ma tra la gente, non si è mai verificato un solo incidente, ne per la strada, ne una discussione, ne una rissa da bar: niente. La gente è abituata: noi abbiamo parenti in Argentina, gli argentini hanno parenti qui da noi».

Mercosur: la sede è qui. Cosa è successo?
«Il Mercosur è in crisi. Non c’è compatibilità macroeconomica, non c’è rispetto per le decisioni del tribunale, non c’è neppure un’effettiva libertà di commercio, perché ogni cinque minuti sorge una nuova difficoltà. Soprattutto l’Argentina ha violato quasi tutti queste regole e ciò ha messo in crisi l’intero sistema. Naturalmente i vincoli sono forti, la prima decade del Mercosur ha permesso di espandere molto il commercio e i rapporti e questo rimane. L’idea rimane buona. E uno spera che i governi cambieranno e si riprenderà una strada più costruttiva. Ma oggi siamo in un cattivo momento. Persino la sospensione del Paraguay è stato un grave errore del Mercosur. Lì non c’è stato un colpo di Stato, ma un impeachment costituzionale a un presidente, ed è stato un grave errore sospendere il Paraguay. Insomma: credo che il Mercosur stia vivendo il suo peggior momento, ma confidiamo che il futuro ci permetta di ritornare sulla buona strada».

Alcuni dicono che era un progetto troppo basato sull’Euro e sul modello europeo…
«In effetti, la fonte di ispirazione è stata l’Unione europea. Si pensava che prima venisse il commercio, poi l’economia, poi la politica, e si parlava persino di arrivare alla moneta unica. Ma ci siamo fermati alla prima tappa. Questa è la realtà».

Disaffezione dalla politica. Esiste questo problema in Uruguay, come esiste in Europa o negli Stati Uniti?
«La politica è sempre motivo di controversia. I parlamenti, in nessun luogo del mondo sono le istituzioni più prestigiose. Nel nostro Paese, per esempio, la gente crede di più ai mass media che al parlamento. Ma io non direi che ci sia una disaffezione comparabile a quella che si verifica in altri Paesi. Perché? È facile provarlo: la stabilità dei partiti politici. I partiti rimangono gli stessi di sempre. Questo indica che la gente crede ancora cha la politica deve canalizzarsi attraverso i partiti. Qui non c’è stato il fenomeno degli “indignati” per le strade, né movimenti come ci sono stati in Argentina, quando si gridava “Che se ne vadano tutti!”».

Nel contesto sudamericano, l’Uruguay è il paese più piccolo e più laico. Secondo lei quale può essere il suo futuro?
«Prima di tutto, le dimensioni non sono un limite. Credo che l’Europa sia un buon esempio di questo: l’Olanda è molto piccola, il Belgio è piccolo, la Svizzera è piccola, eppure sono grandi Paesi. L’Uruguay non ha mai avuto il complesso della piccolezza. Abbiamo cercato sempre di essere un Paese più sviluppato possibile e lo siamo stati. In paragone, siamo sempre stati tra i Paesi più sviluppati, o a miglior livello rispetto agli altri Paesi sudamericani. Occorre pensare anche che l’America Latina è molto diversa. Esiste un’Afroamerica (i Caraibi, il Brasile fino a Rio de Janeiro); poi c’è una Indoamerica (mescolanza di cultura indigena e spagnola, dal Perù, alle Ande e fino al Messico); e infine c’è una Euroamerica, che è il Sud (Cile, Argentina, Uruguay e sud del Brasile), formata da forti immigrazioni europea: spagnola (non solo quella della colonia, ma posteriore, nei secoli XIX e XX), e oggi c’è una nuova ondata, anche se molto più piccola, italiana, portoghese, e di tutte le altre origini. Abbiamo una provincia intera, Colonia, di fronte a Buenos Aires, che è di origine valdese, loro si definiscono piemontesi. Poi ci sono libanesi, ebrei, ecc. Quindi Santiago del Cile, Buenos Aires, Montevideo, San Paolo, non sono estranee a un italiano. Qualsiasi italiano che vi giunga troverà la stessa gastronomia, lo stesso modo di vestire, lo stesso senso della famiglia, dell’amicizia: valori molto simili».

Come definire, allora, in poche parole, l’identità degli uruguayani?
«A volte dico che noi uruguaiani siamo spagnoli che vivono come italiani e pensano come francesi. Siamo spagnoli perché parliamo spagnolo. Siamo italiani perché viviamo come italiani, mangiamo come italiani, la famiglia è come in Italia: a casa mia, il sabato, ci sono tutti quanti: figli, nipoti! E pare un film italiano: parliamo tutti allo stesso tempo! E pensiamo un po’ come francesi per quel razionalismo, quel liberalismo razionalista, da cui è nato lo Stato laico, e tutte quelle cose. Abbiamo una mescolanza tipicamente europea, diciamo, anche se all’interno di un ambiente diverso. E credo che la stessa cosa succeda nella zona sud del Sudamerica. Lei va a Rio Grande, nel sud del Brasile, e ci sono città tedesche, praticamente tedesche. Se lei cade con un paracadute, si chiede: dove mi trovo? In Baviera? Ma si trova in Brasile. Quindi il Sud è un po’ diverso dal resto».

In questo contesto culturale, il Paese ha convissuto tra due Paesi enormi…
«E siamo stati da una parte e dall’altra, nelle origini coloniali e poi abbiamo ottenuto la nostra indipendenza, da due secoli, e l’Uruguay è stato un successo. La dimensione territoriale non è stata una limitazione: abbiamo avuto uno sviluppo sociale migliore dell’Argentina e del Brasile, ultimamente abbiamo i nostri problemi, ma sono i problemi della nuova società. Qui la scuola pubblica, a suo tempo, fu il gran fattore di unità. Gli spagnoli che venivano erano soprattutto galiziani: parlavano galiziano (che ha status di lingua); gli italiani che venivano parlavano xeneize (genovese), e gli altri dialetti delle loro zone… Io e mia moglie siamo genovesi, e la maggioranza dell’emigrazione italiana della prima ora è ligure o piemontese. Nel mio primo governo c’erano undici ministri, dei quali otto di origini italiane. Valga Garibaldi per tutti».

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