Il mio giardino a Ercolano

Un “luogo dell’anima” nella cittadina vesuviana esempio di amore per la natura e di arte del “ben vivere”
CASA DI TELEFO

Che ci fa la statua bronzea di un dignitario militare cinese all’ingresso della Villa comunale della moderna Ercolano? Questa riproduzione di un reperto dell’antica Xi’an, una delle quattro capitali della Cina, famosa per il mirabile esercito di terracotta rinvenuto nella tomba dell’imperatore Qin Shi Huang, è stata donata lo scorso maggio alla città vesuviana dal governatore della provincia dello Shaanxi: a suggello del gemellaggio, in nome dell’archeologia, tra due siti dichiarati patrimonio Unesco.

La notizia mi ha riportato alla mente le tante visite fatte all’antica Ercolano, la mia città del cuore insieme a Pompei: prima con i genitori e un fratello, poi soltanto con la mamma, finché è vissuta. Più motivi determinano il fascino supplementare esercitato su di me da Ercolano, rispetto alla più vasta Pompei. Il suo migliore stato di conservazione, dovuto alla particolarità del seppellimento (una colata di fango che, assumendo la consistenza del tufo, ha preservato anche i reperti organici), consente di penetrare in abitazioni che spesso danno l’illusione di essere state appena abbandonate da chi le abitava: ciò che ha reso ogni mia visita rispettosa verso una intimità domestica che mi sembrava di violare.

Non solo. Mentre Pompei, dissepolta in buona parte, offre lo spettacolo di un nucleo urbano completo di tutti i suoi edifici pubblici e privati, almeno una metà di Ercolano giace ancora circa venti metri sotto la moderna cittadina; neppure i cunicoli scavati al tempo dei Borbone hanno potuto indagare a sufficienza i quartieri settentrionali col foro, il teatro, i templi, le necropoli. E questo ignoto, che forse mai si potrà svelare del tutto, rende a me più intense le sue attrattive.

Della piccola Ercolano costretta su un promontorio lavico in discesa verso il mare, numero di abitanti intorno ai quattromila, mi colpiscono poi le anguste dimensioni delle domus:  infatti, tranne alcune lussuose dimore che arrivano a circa 2200 metri quadrati, come  la Casa dell’Albergo, il 40 per cento delle abitazioni occupa una superficie inferiore ai 100 metri quadrati. Eppure anche in quelle più sacrificate si denota l’amore per la natura, l’aspirazione al “ben vivere”: se mancavano gli spazi per un vero e proprio giardino, si inventavano cortiletti, prese di luce dove inserire almeno un fazzoletto di verde e farsi rallegrare dagli zampilli di un ninfeo; se la natura reale era assente, sopperiva in molti casi quella illusoria raffigurata in affreschi e  mosaici.

Anch’io e mia madre avevamo un giardino “nostro” a Ercolano: l’avevamo scoperto in quello che era stato l’orto della più lussuosa domus patrizia affacciata scenograficamente sulla marina, la cosiddetta Casa del Rilievo di Telefo. Apparteneva, sembra, alla gens dei Balbo, al cui più illustre rappresentante Marco Nonio, patrono benemerito della città, erano state erette statue e una tomba monumentale su una terrazza a due passi dalla spiaggia.

A noi piaceva quello spazio vigilato da un rozzo larario (sacrario, un tempo, della servitù che frequentava il sito) per l’ombra offerta da un paio di pini marittimi e altrettanti eucalipti, più qualche oleandro a altri arbusti. Lì, su una panchina che invitava alla sosta, prendevamo un po’ di ristoro dalla visita e consumavamo i nostri picnic.

In quel minuscolo e appartato Eden, una volta, volli fotografare mia madre. Ancora non c’era la tecnica digitale ed io stentavo a trovare l’inquadratura giusta: sapevo solo che lei doveva figurare non in primo piano, ma immersa nel verde, essendo protagonista anche la vegetazione intorno. Il mio scatto la riprese sulla panchina, inquadrata fra i tronchi degli alberi: seguendo le mie indicazioni, non era rivolta verso me, guardava verso sinistra.

Ne risultò una foto non eccezionale, presto dimenticata fra le tante dell’album di famiglia. Quando la ritrovai dopo la morte di mia madre, volli farne un ingrandimento e… sorpresa! Leggermente sfumata, sembrava ora una pittura in cui venivano esaltati il gioco delle ombre del fitto fogliame e il chiarore lattiginoso dello sfondo con la figuretta di lei in controluce: mi veniva così restituita l’intensa suggestione di un luogo che ora non esiste più, almeno com’era all’epoca. Sì perché alcuni decenni fa, nel rivedere il patrimonio arboreo di Ercolano, ordini superiori decretarono l’abbattimento degli eucalipti, specie incompatibile con la flora di età classica. Con essi sparì anche la panchina. Furono risparmiati solo i due pini, tuttora esistenti.

Da luogo reale, il mio giardino a Ercolano continua a vivere in un’altra dimensione: è diventato un luogo dell’anima. Ed è fonte di riposo contemplativo la foto dove mia madre guarda sempre verso sinistra, aspettando qualcuno. Probabilmente, aspettando me.

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