Il metodo Shackleton
“Cercansi uomini per viaggio pericoloso. Salario basso, freddo tremendo, lunghi mesi di completa oscurità, pericolo costante, ritorno in dubbio. Onore e riconoscimenti in caso di successo. Sir Ernest Shackleton “. A questo annuncio apparso sui giornali inglesi risposero in cinquemila, spinti unicamente dallo spirito d’avventura. Iniziò così la spedizione transantartica imperiale, un’avventura poi definita “il fallimento di maggior successo della storia dell’uomo”. La nave Endurance – ovvero, tenacia, in onore del motto di famiglia degli Shackleton -, partita per portare il suo equipaggio alla prima traversata antartica, rimase infatti bloccata ed affondò fra i ghiacci, costringendo 28 uomini ad una epica odissea di diciotto mesi per trarsi in salvo. Tre anni “dopo la conquista del Polo Sud da parte di Amundsen, che solo per pochi giorni precedette la spedizione britannica di Scott (perito tragicamente con i compagni sulla via del ritorno, n.d.r.), rimane un solo grande obiettivo nell’esplorazione dell’Antartide: l’attraversamento del Polo Sud da oceano a oceano”, aveva dichiarato Shackleton, preparandosi all’imbarco. Raggiunti i mari australi, l’Endurance, si arrestò, per sempre, bloccata nel pack, il 18 gennaio 1915, a ottanta miglia dalla costa, “come una mandorla in una tavoletta di cioccolato “. Incastrati in una gigantesca piattaforma di ghiacci galleggianti, l’equipaggio e la sua nave iniziano una lenta, inesorabile deriva verso nord-ovest di ben 2.000 chilometri, con quattro mesi di totale buio australe, fino a quando la nave si sfascia, stritolata dai ghiacci, ed affonda il 21 novembre con l’arrivo dell’estate. Shackleton ed i suoi rimangono alla deriva su un isolotto vagante di ghiaccio che si rimpicciolisce via via sotto i loro piedi e che abbandonano il 9 aprile del ’16, salendo a bordo delle tre lance di salvatag- gio lunghe sette metri: con queste imbarcazioni d’emergenza resistono agli iceberg ed alle tempeste di uno dei più turbolenti bracci di mare del globo, remando fino ad Elephant Island, la prima terra solida, se pur inospitale, dopo oltre sedici mesi. L’unica via di salvezza è tentare di raggiungere la Georgia Australe, uno sperduto isolotto britannico, a sud-est delle Falkland, sede di una base di balenieri, distante ben 800 miglia. Shackleton e cinque compagni, su una scialuppa di sette metri, alta uno, sfidano l’oceano a remi ed a vela e, dopo diciassette giorni di tempesta, raggiungono l’isola, attraversando poi a piedi, per le avverse condizioni del mare, i suoi picchi di oltre tremila metri, fino alla base dei balenieri. Da lì, dopo quattro tentativi, riescono a vincere i ghiacci del mare australe e trarre in salvo i compagni, tutti sopravvissuti, il 30 agosto. “La verità è che non lottò mai contro i ghiacci, – scrive di lui la Rivista della montagna – ma per la salvezza delle vite umane. Cosa che gli riuscì sempre, in un’epoca in cui i decessi durante le esplorazioni erano quasi normali”. Shackleton oggi è ricordato con tanta enfasi (dopo libri e documentari, è in preparazione un colossal), lui che non raggiunse mai gli obiettivi previsti (fallì due volte l’obiettivo del Polo Sud, nel 1901 con Scott, da solo nel 1908), ma compì piuttosto imprese oltre i limiti dell’immaginabile per riportare a casa sani e salvi tutti i componenti delle sue spedizioni. In particolare, è curioso che l’ultimo libro scritto su di lui – Shackleton’s way (la via, il metodo, di Shackleton), incentrato sullo studio della capacità di leader di sir Ernest – sia stato adottato da diversi corsi di management (direzione aziendale). Chi ha superato difficoltà naturali estreme sembra aver qualcosa da insegnare a chi è in cerca di strategie vincenti in campo aziendale. Idealizzazioni a parte, Shackleton, pure spinto alle imprese dal desiderio di fama, va apprezzato certamente per la sua capacità di aver saputo mettere sempre al primo posto la vita delle persone, senza tentennamenti. Quando l’Endurance fu stritolata, disse semplicemente: “Ok, ragazzi, si va a casa”, e ce li portò davvero tutti. Per riuscirvi, oltre che contare sulla sua impareggiabile esperienza in quei mari ghiacciati, si dedicò incessantemente a tenere alto il morale degli uomini, anche nelle situazioni più opprimenti: fu questa la sua impresa. Un’avventura di cui tenta di ricostruire ogni particolare in questi mesi anche Robert Ballard, grande esploratore degli abissi, che, dopo aver trovato i resti del Titanic, si trova nelle acque del mare di Weddel per localizzare e fotografare il relitto dell’Endurance.