Il mestiere dell’autore televisivo

Secondo l’esperienza di Michele Afferrante deve coniugare cultura e leggerezza, produttività e competitività, qualità e indici di ascolto. Un approfondimento da Città Nuova rivista
Michele Afferrante

Il mestiere dell’autore televisivo attraversa vari codici comunicativi: la parola, l’immagine, i segni, la musica. Michele Afferrante, originario di Vico del Gargano, in provincia di Foggia, sposato con due figli, ne è ben consapevole, essendosi cimentato come affermato autore di programmi tv nelle maggiori produzioni italiane, targate sia Rai che Mediaset. Nel suo curriculum troviamo Sanremo 2005, passando per Porta a Porta, Il senso della vita, Ciao Darwin. Negli ultimi tre anni è uno degli autori di La vita in diretta e di Radio2 days.

Oggi la tv sembra non guardare ai contenuti, ma alla forma e al chiacchiericcio…
«È questo, spesso, il rumore di fondo della tv di oggi. Eppure la televisione non dovrebbe solo colpire emotivamente il telespettatore, ma dovrebbe svolgere un compito culturale, di libertà, di formazione delle coscienze e avere un ruolo sociale di crescita civile. Perché anche se non esiste più la tv pedagogica non puoi non pensare che abbia una ricaduta di carattere pedagogico».

Qual è allora la tv che ami?
«Mi affascina la tv della “spiegazione”, dell’approfondimento, della conoscenza. Da piccolo, mio padre mi piazzava davanti alla tv per seguire i programmi di Sergio Zavoli. Erano ottimi racconti televisivi che sapevano affrontare i problemi del tempo, ti portavano dentro i nodi della società, li sapevano rappresentare, anche se non li dipanavano. Iniziavo a sentirmi cittadino».

Ogni programma, però, passa attraverso un giudizio solo quantitativo, gli indici di ascolto…
«Se seguissi solo gli indici di ascolto ci sarebbe automaticamente una riduzione della qualità del prodotto televisivo perché il punto di riferimento creativo diventa qualcosa fuori di te. La logica conseguenza è trovare una mediazione tra quello che ti viene richiesto e quello che puoi dare».

Ma allora che cos’è la qualità di un prodotto televisivo?
«Oggi abbiamo la tecnica, ma non c’è più l’anima. Qualità vuol dire pensare e progettare un prodotto che non soddisfi la domanda del pubblico, ma vada incontro al telespettatore affinché sia in grado di sviluppare una capacità critica e creativa. Per questo la scommessa della tv del futuro è coniugare la produttività con la competitività mettendo in circolo dei format che tengano conto della sensibilità e curiosità delle persone. E l’indice di qualità è dato da quanto più sforzo, intelligenza, delicatezza ci mette tutto il gruppo di lavoro prima e durante la messa in onda di un programma».

Serietà ‒ diceva Brando Giordani ‒ non fa rima con seriosità. Vale anche per quella che definisci “la tv della conoscenza”?
«Certamente perché la qualità è anche la cultura che inserisci in un programma perché bisogna coltivare, arare le coscienze. Non vuol dire fare programmi culturali, ma immettere conoscenze con buon gusto, calore, ironia per una leggerezza pensosa in ogni tipo di prodotto televisivo. Per poter arrivare ad una rappresentazione, per quanto possibile della realtà e delle dinamiche sociali anche se l’oggettività non esiste».

Perché la tv è spesso superficiale?
«La superficialità è costitutiva della tv perché deve essere sempre accessibile e comprensibile, ma non vuole dire banalizzazione. Diceva lo scrittore Hugo von Hofmannsthal: «La profondità va nascosta. Dove? Alla superficie». Questa è la sfida: riuscire a portare in superficie la profondità. È l’ideale regolativo, quello che bisognerebbe fare, anche se poi le cadute sono inevitabili».

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