Il mercato, il traffico e l'”etica a punti”
L'economia italiana nel contesto dell'incertezza internazionale. Istruzioni per non restare "ingolfati".
L’economia è una scienza sociale che fa largo uso di metafore e di immagini. La prima e ancora oggi tra le più famose è stata la “mano invisibile”, la metafora con cui l’economista Adam Smith spiegava nel Settecento il mercato come un meccanismo che trasforma gli interessi privati in bene comune. Ancora oggi l’economia prende in prestito dallo sport (la concorrenza come gara sportiva), dalla musica (il manager come direttore d’orchestra), e da molti altri ambiti immagini che consentono agli economisti di spiegare dimensioni della realtà che rimangono inaccessibili al linguaggio delle formule matematiche e dei bilanci d’esercizio. Non sempre, però, le metafore aiutano davvero, e a volte portano fuori strada, soprattutto quando l’immagine presa in prestito è usata con scopi ideologici, e con eccessive semplificazioni.
Negli ultimi tempi, ad esempio, si incontra sempre più spesso l’accostamento tra mercato e traffico stradale. Quando una persona esce di casa e si immette nel traffico lo fa perché ha motivi e interessi personali che lo spingono a ciò (lavoro, amici, svago…), non per amore della sua città o degli altri automobilisti. Ma se il traffico è ben regolato da strumenti (semafori, rotonde e autovelox), istituzioni (polizia stradale e vigili), infrastrutture e buone leggi, ognuno riesce a raggiungere il proprio scopo. Perché la viabilità funzioni bene, poi, non bastano istituzioni, strumenti, controlli e leggi ma occorre anche una certa etica dell’automobilista e la manutenzione delle strade. E quando questo meccanismo si inceppa (negli ingorghi, ad esempio), non conviene intervenire sugli automobilisti per farli diventare più “buoni”, ma bisogna migliorare le strade o sostituire i semafori con le rotonde. Così nel mercato: buoni strumenti e istituzioni, regole e “vigili”, “strade” larghe e comode, rispetto delle leggi e ciascuno riesce a raggiungere i propri obiettivi, dando vita ad un “ordine spontaneo” che non richiede un piano regolatore che fissi i prezzi dall’alto, o regoli la domanda e l’offerta.
Ma c’è di più. Nel traffico non è opportuno, anzi è sconveniente, guardare negli occhi gli altri automobilisti quando li sorpassiamo o siamo fermi ad un semaforo. Né mentre si guida è richiesto l’altruismo, che è spesso pericoloso (perché imprevedibile), come quando un automobilista “altruista” che vedendo una persona anziana che vuole attraversare la strada in una zona senza strisce pedonali inchioda e viene così tamponato da chi lo segue. L’unica forma di sguardo negli occhi, di altruismo che sembra aver spazio nel traffico è quello necessario nei momenti di crisi (in una manovra sbagliata, un imprevisto), o il favore che si fa a chi vuole immettersi da una strada secondaria nel traffico urbano. Così nel mercato: l’anonimato e l’impersonalità funzionano meglio dei rapporti amicali o famigliari. Negli affari non si “guarda in faccia” a nessuno: rispettare le regole, più qualche piccola donazione, è il massimo che si può chiedere all’etica economica in tempi normali. Solo durante le crisi occorre fare qualche cosa in più.
Ma siamo sicuri che le cose stiano davvero in questi termini? Non credo. L’analogia mercato-traffico coglie alcuni aspetti, ma rischia di portarci fuori strada su altri molto importanti. Innanzitutto nel traffico l’etica la si vive in altri aspetti ben più rilevanti: dal tipo di auto che acquistiamo (ecologica o no), dallo stile di guida responsabile e prudente (che non riduce la velocità solo quando vede l’autovelox), o dalla temperanza con la quale reagiamo di fronte ad una manovra sbagliata di altri. E il ruolo delle istituzioni non si esaurisce nella manutenzione dei semafori e degli autovelox, ma nel favorire sistemi di trasporto più ecologici (il treno, ad esempio), i mezzi pubblici o la nuova modalità di noleggio dell’auto, il cosiddetto car-sharing, rispetto alla vettura di proprietà.
Così nel mercato: l’etica non sta principalmente nel sorriso che si fa al cliente o al collega, ma nell’essere aggiornati professionalmente, nel prepararsi prima di un incontro, nel non vendere la dignità per la carriera, nella sicurezza sul lavoro, nell’indignarsi di fronte alle ingiustizie.
«Io voglio bene ai miei pazienti studiando la loro cartella clinica prima della visita», mi diceva un anziano primario milanese. Oggi la sfida per chi ama l’etica e i valori è riscattarli dal ruolo marginale dove li stiamo confinando: il sorriso dal finestrino dell’auto, l’sms solidale o il 5 per mille. Tutte cose positive, ma la qualità etica della vita pubblica viene giocata sull’uso del 99,5 per cento del reddito, sulla solidarietà con le terre d’Abruzzo sei mesi dopo gli sms dell’emergenza, o sulla giustizia nei rapporti di lavoro.
Queste crisi che stiamo vivendo e le tante altre che vivremo ci dicono che la dimensione etica di imprese e banche non si misura con l’importo destinato a donazioni filantropiche, ma con la cultura della loro intera attività. Non rassegniamoci ad una cultura che sta trasformando i valori nel “limoncello” di un lauto pranzo, gradevole ma non essenziale per vivere.
L’etica non è il limoncello, ma neanche il primo piatto. È piuttosto il modo con cui il pranzo viene preparato, servito, curato. È la qualità delle relazioni durante il pasto, l’attenzione per chi non mangia con noi o che non mangia affatto, perché escluso dai nostri banchetti opulenti. Se dimentichiamo tutto questo, presto i valori diventeranno semplici merci, che ognuno potrà acquistare a buon prezzo e consumare secondo le proprie preferenze, in una sorta di “etica a punti”, con relative scuole di recupero.