Il mercato delle armi e la Difesa europea, intervista all’economista Luca Ferrucci

Anche nella festa del primo maggio, papa Francesco ha continuato a indicare la responsabilità dell’industria delle armi negli attuali conflitti bellici aperti ad ogni possibile escalation. Ma è davvero possibile imporre dei limiti ad un settore legato alle dinamiche del mercato? E cosa comporta in tal senso la definizione di un politica di Difesa comune in sede di Unione europea? Ne abbiamo parlato con Luca Ferrucci, professore ordinario di Economia e Management delle Imprese presso l’Università di Perugia
Manifestanti anti-Nato e pro-Palestina il cui corteo, diretto al teatro San Carlo è stato fermato da un cordone di Polizia in assetto antisommossa. ANSA/CIRO FUSCO

Neanche il primo maggio, festa dei lavoratori e delle lavoratrici, è passato senza l’ennesima condanna da parte di papa Francesco contro chi fa profitto dal commercio delle armi. «Chiediamo la vera pace per questi popoli e per tutto il mondo – ha detto papa Bergoglio –, purtroppo oggi gli investimenti che danno più reddito sono le fabbriche delle armi. Terribile, guadagnare con la morte».

Questa reiterata denuncia della produzione delle armi è ovviamente rivolta a tutte le parti in causa e pone la questione di come regolamentare la produzione e il commercio dei sistemi d’arma sempre più temibili con il progredire e l’estendersi della guerra mondiale a pezzi denunciata ormai da tempo dal pontefice argentino che, nell’incontro del 27 aprile dedicato a nonni e nipoti, ha anche citato un canto contro la guerra appreso dal nonno emigrato nel nuovo mondo dopo il primo conflitto mondiale.

Come è noto, è difficile passare dalla teoria alla pratica. Sta facendo discutere, ad esempio, la rivelazione pubblica da parte del ministro britannico della Difesa, Grant Shapps, circa la fornitura all’esercito ucraino, anche da parte dell’Italia, di missili Storm Shadow, in grado di colpire gli obiettivi fino a 250 chilometri eludendo le difese nemiche, superando così la fragile distinzione tra armi difensive e offensive.

Sulla limitazione alla produzione e commercio di armi esistono molte obiezioni ricorrenti in campo politico. Ne abbiamo parlato con l’economista Luca Ferrucci che è intervenuto il 15 aprile a Viareggio ad un convegno intitolato “Per un’economia disarmata” promosso dalla commissione Giustizia e pace della Diocesi di Lucca. Ferrucci è professore ordinario di Economia e Management delle Imprese del Dipartimento di Economia dell’Università di Perugia. Nel 2023 ha curato il testo Oltre la guerra. Pensieri, vie e strumenti per la pace.

 Da cosa è nato il testo che ha curato?
Il volume raccoglie un ciclo di conferenze, organizzate dall’Istituto Conestabile-Piastrelli di Perugia, un’associazione laicale di ispirazione cristiana fondata nel 1955. Subito dopo l’inizio della guerra russo-ucraina, l’Istituto ha deciso di far “sentire la propria voce” contro la legittimazione di ogni guerra che, come dice papa Francesco, è una sconfitta per l’umanità. I proventi della vendita di questo libro sono stati devoluti alla Caritas Diocesana, come gesto simbolico che, con la cultura, si può aiutare coloro che vanno alla sua mensa. Ovvero, con la cultura si mangia!

In sede istituzionale, come in ambito politico e nel mondo delle imprese, è diffusa la tesi secondo cui sarebbe inutile lo stop alla produzione e al commercio di armi da parte di un solo Paese in un mondo segnato dalla corsa al riarmo. Altri attori sarebbero comunque pronti a prendere il nostro posto nella competizione internazionale di un settore dove non possiamo rischiare di restare esclusi perdendo fette di mercato importanti per la nostra economia. Non le pare una tesi realistica e ragionevole?

I mercati crescono e declinano in funzione della domanda che i vari soggetti esprimono. Che si tratti di scarpe o di automobili o di armi non cambia molto. Ma la domanda di tecnologia militare ha alcune caratteristiche che non possiamo ignorare. Essa è espressione della spesa pubblica degli Stati, e non della spesa privata di persone o imprese. Dietro la domanda di armi vi è dunque una precisa scelta allocativa della politica economica degli Stati. E, con questa decisione, è evidente che, a parità di risorse, più spesa pubblica nelle armi significa meno spesa pubblica in altri beni e servizi pubblici. Essere soddisfatti perché il nostro Paese è divenuto un leader mondiale nella produzione di tecnologia militare e riveste un ruolo fondamentale nel commercio mondiale può appagare il Pil e l’occupazione, ma le conseguenze strutturali di questo sentiero di sviluppo possono suscitare diverse preoccupazioni.

Che tipo di preoccupazioni?
Da un lato, il commercio mondiale delle armi è fortemente condizionato dagli assetti geopolitici: vi sono Paesi ai quali l’Occidente può vendere le proprie tecnologie, mentre in altri operano cinesi, russi o altri Paesi. Quindi, il mercato delle armi – oltre a presentare un “fisiologico” tasso di corruzione – non è “globale” e non “vince il migliore”, ma vince quello “meglio relazionato” grazie alla diplomazia degli Stati. Dall’altro lato, il commercio internazionale delle armi contribuisce alla “trappola della povertà” dei Paesi poveri nel mondo.

In che modo si alimenta questa trappola della povertà?
I Paesi più poveri, di norma, hanno, in rapporto al loro Pil, una spesa militare elevata. Ciò serve a sostenere il potere delle autocrazie del momento, tramite il reclutamento di giovani che indossano l’uniforme, anziché andare ad imparare un “mestiere” di artigiano, di lavoratore agricolo o di commerciante. Come dire, una fetta importante di giovani, anziché imparare un lavoro produttivo, si dedicano a fare i militari, con la conseguenza di “irrobustire” politicamente le dittature o oligarchie dominanti in un determinato Stato.

Come incide il mercato internazionale delle armi in tale contesto?
Esiste il fatto che questi regimi vogliono dotarsi di tecnologia bellica avanzata, acquistandola nel commercio internazionale dai Paesi ricchi, e finendo per  indebitarsi in valuta pregiata. In tal modo finiscono per impedire di allocare spesa pubblica in altri settori come la sanità o la scuola che potrebbero contribuire a “liberare” questi Paesi dalla loro “trappola della povertà”. Quindi, deve essere chiaro che vi sono tutte queste conseguenze quando un Paese ricco si va specializzando nella produzione di tecnologia militare. E se noi – cittadini ricchi di questo pianeta – abbiamo un’etica della responsabilità in relazione alle conseguenze delle nostre azioni, limitare la produzione di tecnologia militare implica anche tutto questo.

Tali regole non eliminano comunque la produzione delle armi nei nostri Paesi. Quale tipo di politica di difesa comune è possibile in Europa?
Partiamo innanzitutto dal fatto che la spesa militare in molti Paesi è contabilmente opaca nei bilanci dei singoli Stati, visto che essa attinge spesso a più dicasteri (ministero dello Sviluppo economico, ministero degli Esteri, etc..), come avviene in Italia. E questo è un primo problema di chiarezza e trasparenza democratica che andrebbe posto con forza. Poi, a livello di singoli Stati europei, si spende molto – anzi troppo – in ambito militare.

Ma gli attuali vertici  della Ue, da Michel alla von der Leyen, non affermano invece la necessità di mettere l’economia europea “in assetto di guerra” davanti al pericolo russo?
Proviamo allora a fare un ragionamento per assurdo. Si sostiene che oggi esiste un nemico per gli europei, ossia la Russia e che essa è pronta ad invadere, dopo l’Ucraina, altre parti dell’Europa. E che quindi è urgente saperci difendere e, per fare ciò, occorre aumentare strutturalmente le spese per la difesa in campo militare. Come indica l’accordo in sede Nato, i Paesi devono raggiungere urgentemente la spesa pubblica del 2% rispetto al Pil. Occorre, in altri termini, avere uno stanziamento complessivo tale da poterci difendere dal “nemico” russo. Ma quanto spende all’anno la Russia per la difesa? Nel 2022, con il conflitto russo-ucraino già iniziato da tempo, essa spendeva, secondo le stime del Sipri, miliardi di dollari. Quindi, assai paradossalmente, l’Europa dovrebbe spendere un po’ più della Russia per sentirsi “protetta” (a prescindere dal rischio nucleare che è meglio omettere). Ebbene, se sommiamo la spesa per la difesa di Paesi come la Germania (56 miliardi di dollari), la Francia (54 miliardi di dollari) e l’Italia (34 miliardi di dollari), otteniamo che, per ogni dollaro speso dalla Russia, solo questi tre Paesi ne spendono 1,67. Ovvero, tre Paesi europei sono già adeguatamente protetti, con l’attuale spesa pubblica in difesa, rispetto al “nemico” russo. E ovviamente abbiamo ignorato la spesa pubblica di altri Paesi, come la Spagna, la Polonia o il Regno Unito, nonché abbiamo omesso le conseguenze dell’art. 5 del Trattato Nato che impone la solidarietà tra i Paesi aderenti nel caso di attacco ad uno di essi.

Quindi cosa comporterebbe un’integrazione delle politiche di Difesa dei singoli Stati europei?
Una verità che mi sembra molto semplice: se andassimo verso la realizzazione di un’Europa federale, ci accorgeremo di non aver bisogno di aumentare le spese militari, ma addirittura, con una difesa comune, potremmo conseguire due obiettivi: da un lato, ridurre le spese militari a carico di ogni singolo Paese e, dall’altro lato, conseguire una maggiore indipendenza rispetto all’ombrello politico-militare statunitense. Ma questo, ancora oggi, appare un pio desiderio o forse una utopia, per quanto necessaria.

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