Il mercato del lavoro al di là delle favolette

Gli studi degli economisti premiati con il Nobel interrogano su un liberismo che non sempre è attento al lavoratore. La parola ora ai Governi senza slogan di turno.
Lavoratori in un campo

Perché esistono gli uffici di collocamento e le agenzie matrimoniali? Avete mai provato a chiedervi perché paghiamo qualcuno che ci aiuta a fare un investimento, o a trovare casa? Eppure quando andiamo a fare la spesa, a comprare un libro, o una nuova lavatrice, facciamo molto bene le nostre scelte secondo gusti e portafoglio, senza bisogno di nessun’aiuto.

 

Su questo punto, che mette in luce una differenza solo apparentemente banale, devono aver pensato a lungo e molto a fondo, Peter Diamond, Dale Mortensen, e Christopher Pissarides, i tre economisti che si sono aggiudicati l’11 ottobre scorso, il premio Nobel per l’economia, edizione 2010.

 

Perché dunque? La risposta sta nel fatto che, contrariamente a quanto ipotizzato dagli economisti per decenni, cercare un lavoro e comprare la frutta al supermercato, sono attività fondamentalmente differenti. E’ vero, quello del lavoro e quello della frutta sono entrambi dei mercati, dove produttori e compratori si incontrano, stabiliscono un prezzo e raggiungono un accordo. Ma è anche vero, è qui sta l’intuizione profonda dei nostri tre freschi Nobel, che alcuni mercati, quello del lavoro in primis, ma non è l’unico, presentano delle “frizioni”. Che cosa vuol dire? Immaginate di aver comprato la frutta dal signor Gino, di portarla a casa, di assaggiarla e di trovarla non abbastanza buona. L’indomani, con tutta probabilità, andrete al mercato, supererete platealmente la bancarella del signor Gino e, in modo che egli vi noti bene, vi fermerete questa volta dal signor Mario ad ordinare le pere e le mele.

 

Questa operazione, il passaggio da un fruttivendolo ad un altro non vi costa niente e con tutta probabilità vi darà la possibilità di gustare frutta migliore. Fin qui per il “bene-frutta”. E per il “bene-lavoro”? Se oggi accettate un lavoro e, magari dopo anni di formazione, impegno, amicizie coi colleghi, le condizioni contrattuali mettono le cose in modo che quel lavoro non vi soddisfi più, potete certo sempre rivolgervi ad un nuovo datore di lavoro, un signor Mario qualsiasi che vi offra non le pere ,questa volta, ma migliori condizioni occupazionali. Contrariamente al caso della frutta, però, ora notiamo che lasciare un lavoro e, soprattutto cercarne uno nuovo, può essere un processo costoso, a volte estremamente costoso. Potrebbero volerci settimane, mesi, perfino anni di inoccupazione, o magari il trasferimento in un’altra città. Sono i costi del processo di ricerca; ecco qua una delle famose “frizioni” di cui sopra.

 

E cosa cambia in un mercato nel quale appaiono queste “frizioni”? Cambia moltissimo. Anche piccoli costi, infatti, possono portare un mercato molto lontano dal risultato ottimale. Un mercato competitivo che senza frizioni produrrebbe un risultato ottimale, può diventare inefficiente quanto un mercato in monopolio; come se ci fosse un datore di lavoro unico per tutti. Dal punto di vista del lavoratore, la cosa peggiore che possa capitare!

 

C’è poi un secondo problema, i cosiddetti “effetti esterni”: maggiore è il mio impegno nel cercare un lavoro, minore sarà la probabilità che gli altri disoccupati, come me, trovino un posto. Il mio impegno, quindi, aiuterà le imprese a coprire il loro organico, ma allo stesso tempo metterà, involontariamente, in difficoltà gli altri lavoratori. Come conseguenza avremo che qualcuno si impegnerà troppo nella ricerca di un lavoro e qualcun altro invece troppo poco.

 

Il mercato del lavoro, in altre parole, se lasciato a sé stesso, fatica molto ad autoregolarsi, e ha bisogno di essere spinto dall’intervento pubblico, attraverso regole ed incentivi, verso il raggiungimento dell’esito migliore. Il lavoro di Diamond e soci ci aiuta a comprendere i meccanismi delicati e complessi del mercato del lavoro e in tempi difficili come quelli che stiamo vivendo questa conoscenza può essere davvero di grande utilità. Potrebbe, per esempio, influenzare positivamente le relazioni industriali. L’atteggiamento di imprese e sindacati nonché del governo non può basarsi esclusivamente sulla difesa di interessi di una parte o una categoria, perché come l’idea di “effetto esterno” ci insegna, il conflitto renza regole può farci perdere tutti.

 

Anche la lezione che ci giunge da questo Nobel, così come quella, dolorosa, che ci ha impartito la crisi dei mercati finanziari, ci insegna che la favoletta liberista dei mercati che raggiungendo autonomamente l’equilibrio ci porteranno verso il migliore dei mondi possibili, appunto non è altro che una favoletta. Come tutte le favole contiene, certo, un messaggio di verità, ma ci fa capire anche quanto la realtà sia enormemente più complessa.

 

Questo Nobel va a studiosi che con il loro ingegno hanno complicato l’economia, come direbbe Albert Hirschman. E’ questo è sempre più necessario, per evitare che la scienza economica diventi sempre più specialistica e angusta, proprio quando i problemi sociali diventano invece sempre più profondi e complessi e i cittadini richiedono a gran voce risposte competenti, adeguate e tempestive… non facili slogan e trionfalistici annunci.

 

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