Il meglio relativo di Short Theatre

Il festival quest'anno ondeggia tra pretenziosi studi e noiose performance. Si distinguono gli attori per le modalità con cui calcano la scena: la frammentazione comunque resta la parabola dentro cui si muovono artisti e rappresentazioni
Un momento dello spettacolo To play or to die

Tra gli spettacoli visti nella variegata programmazione di Short Theatre, fra discutibili allestimenti, noiose performance, pretenziosi studi, “In società/Divertimento”, di Federica Santoro,anche regista per Fattore K, è da segnalare per la bravura dell’attrice (più come interprete che come autrice) dal modo di recitare quasi distratto e febbricitante. Dentro una scena disordinata affollata di sedie capovolte, di un divano, di una panca al centro, di alcuni abiti appesi, stoffe da stracciare, parrucche sparse, di armadietti e di un violoncello e un trombone appoggiati a terra, l’attrice, sciattamente nero vestita, imbastisce una drammaturgia di soliloqui fra tre personaggi – fratello, sorella e lui – incapaci di comunicare.

Tutti, distrattamente, si rincorrono, ma senza incontrarsi. Prevale una sordità che è indifferenza, con lei che parla sempre, e gli altri – Sebi Tramontano e Luca Tilli – a esprimersi con i due loro strumenti musicali in un percorso buffo di entrate e uscite, di camminamenti felpati o rumorosi, di brevi frasi sussurrate, o di risate e pensieri a voce alta che lui, l’uomo in vestaglia, improvvisamente esprime. La scrittura della Santoro – ironica e divertente nella costruzione scenica di traiettorie di movimenti – pecca di eccessiva frammentazione, limitandosi a snocciolare pensieri sparsi, che risultano approssimativi, seppur articolati. Sono divagazioni sull’esistenza quotidiana e sul mondo, ma che non giungono ad una compattezza narrativa che aiuti lo spettatore ad entrare dentro il caos di quella stanza, e di quel mondo relazionale.

Notevole la scrittura scenica di Giuseppe Provinzano autore, per la sua nuova compagnia Babel, di “To play or to die. This is the question … today (nella foto), cherivisita l’Amleto riducendolo a due soli interpreti. Con lui in scena c’è Chiara Muscato in un continuo scambio di ruoli di tutti i personaggi della saga scespiriana, di fantasiosi travestimenti con semplici costumi poveri trasformati in fogge evocative, di musiche pop, su una scena di luci neon, fili e microfoni, un teatrino di marionette, e lenzuola scritte. «Sappiamo più di Amleto che di quello che sta avvenendo nel nostro paese», dice nel prologo Provinzano, segnando così la cifra della sua rilettura del celebre, e bistrattato, principe di Danimarca.

Nel seguire un percorso non narrativo egli innesta divertenti commenti e pungenti riflessioni sulla nostra attualità, soprattutto politica con riferimenti a personaggi noti, sulla cultura, sulla situazione del teatro “occupato” e dei teatranti “occupanti”, perché «…anche il teatro, in questi tempi di crisi, non se la passa bene». Ma resistere è la condizione necessaria. Ed è quello che si ostinano a fare questi due Rosencrantz e Guildestern non ancora morti. Agonizzano ma resistono: si aggrappano alle immagini e alla poesia di Shakespeare, si fanno scudo citando il pensiero lucido e non rassegnato dello scrittore tedesco Heiner Müller, rivendicano il diritto alla bellezza. Forse sfoltito in alcune parti, lo spettacolo acquisterebbe maggior ritmo e compattezza.

Da segnalare ancora la bella mise en space del romanzo della tedesca Rebekka Kricheldorf  “Villa Dolorosa” curata da Fabrizio Arcuri (direttore artistico del Festival) con un ottimo cast di giovani attori seduti e in movimento, che hanno reso il clima della strampalata, noiosa e fallimentare festa di compleanno della protagonista Irina in compagnia delle sue sorelle “cechoviane”, del fratello e dei loro malcapitati amici, “in attesa che la vita celebri il proprio cammino con un regalo sorprendente, che regali un po’ di leggerezza e di speranza”.

Tra le presenze straniere un giovane trio spagnolo Atresbandesche col loro “Solfatara”, ispirato a “Anatomia del miedo” di José Antonio Marina e “Fragments d'un discours amoureux” di Roland Barthes, esamina alcuni aspetti delle strategie emotive che utilizziamo per affrontare la vita e le relazioni. In questo caso, quelle di una fragile coppia che, durante una cena imbastita per una coppia di amici, dà voce alle loro paure e ai pensieri inespressi sollecitati da un’invisibile ombra, incarnazione della loro mente. Divertentissima ed efficace l’analisi spietata dell’inconscio che i tre bravissimi attori riescono a creare semplicemente attorno ad un tavolo domestico, in un andirivieni molto dinamico e mimico arricchito dalla traduzione italiana sovraimpressa.

Al Festival Short Theatre, Roma, La Pelanda-Macro, fino al 18/9.

I più letti della settimana

Il sorriso di Chiara

Abbiamo a cuore la democrazia

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons