Il Medio Oriente si muove
La notizia della riconciliazione inter-palestinese, cioè tra Fatah (Ramallah) e Hamas (Gaza), invece che essere salutata come un importante sviluppo in un impasse che dura dal 2007, è stata accolta con scetticismo (a dire il meno) da parte sia di Israele che degli Stati Uniti. In realtà si tratta del tentativo dei Palestinesi di risolvere uno scontro interno che non solo non ha fatto del bene alla causa dello stato palestinese, ma nemmeno a Israele. Dopo il mancato riconoscimento internazionale dell’oggettiva (per quanto sgradita) vittoria di Hamas alle elezioni parlamentari palestinesi del 2006, che portarono alla creazione di un fragile governo di unità nazionale osteggiato dall’Occidente, Gaza si è trasformata, in pratica, in un campo di battaglia, oltre che una prigione a cielo aperto, con il lancio di razzi verso le città israeliane limitrofe e le frequenti e pesantissime incursioni aeree dell’Aviazione di Tel Aviv. Negli anni scorsi, i Paesi arabi più esposti (come l’Egitto) o più diplomaticamente attivi (come il Qatar) avevano cercato di ricomporre la frattura tra i Palestinesi, e oggi molti degli elementi concordati in negoziati passati sono stati recuperati e inclusi come punti dell’accordo. La prospettiva è quella del virtuale azzeramento sia degli organi elettivi che di quelli esecutivi palestinesi, attraverso elezioni da convocare a breve.
Cosa c’è dietro questa intesa? Anzitutto, come alcuni commentatori hanno segnalato, c’è l’incontro di due debolezze. Hamas – formazione legata alla Fratellanza Musulmana – ha perso, con l’uscita di scena di Morsi, il suo influente alleato egiziano, dopo che si era già consumata la rottura con il regime siriano di Assad, in nome della solidarietà con i sunniti di Damasco. Fatah, dopo la proclamazione più simbolica che reale dello stato palestinese da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 29 novembre 2012, si è trovata dinanzi la chiusura israeliana, che nemmeno gli Stati Uniti e l’azione sia di Hillary Clinton che di John Kerry sono riusciti a superare.
Hamas ha governato, a Gaza, un territorio sotto assedio; Fatah non ha potuto governare, in Cisgiordania, un territorio sotto occupazione.
Il leader israeliano Benjamin Netanyahu, in questi anni, non ha voluto o potuto arrestare l’avanzata degli insediamenti illegali in Cisgiordania, e oggi pone ad Abu Mazen la scelta tra la riconciliazione inter-palestinese o la pace con Israele. La verità è che neanche la prolungata e aperta rottura tra Fatah e Hamas è servita a far avanzare la causa palestinese; Israele avrebbe potuto davvero “isolare” Hamas concludendo finalmente un vero accodo di pace con Abu Mazen, ma non è accaduto, tutt’altro.
Tuttavia si sottovalutano gli effetti positivi che il riportare Hamas nell’ambito di responsabilità di governo condivise potrebbero derivare per l’evoluzione di un movimento che, pur con tutte le sue posizioni oltranziste e inaccettabili preclusioni, è pur sempre una forza politica che gode di un apprezzabile consenso. D’altronde, Hamas è anch’essa in forte difficoltà a Gaza, dove avanzano formazioni jihadiste e vicine ad Al Qaeda.
Allo stato, tutto milita contro una seria e credibile ripresa del processo di pace, e molti considerano l’Accordo di Oslo del 2003 non solo politicamente defunto, ma anche praticamente inattuabile con una situazione sul territorio che non appare più rimediabile da punto di vista della occupazione fisica di larga parte della Cisgiordania. Se la condizione per Abu Mazen dovrebbe essere quella di rifiutare ogni intesa con Hamas, simmetricamente la condizione per Israele dovrebbe consistere nel troncare ogni appoggio ai coloni. Siccome entrambe le prospettive sono irrealistiche, occorre ripartire su nuove basi. Forse, a medio termine, un cambio di leadership in entrambi i campi potrebbe consentire di riprendere un cammino che non può essere interrotto; la sconfitta della pace segnerebbe un tragico fallimento storico non solo per i Palestinesi, ma anche per Israele, il Medio Oriente, l’Occidente. Invece di lanciare anatemi, è ora di rimboccarsi le maniche.