Il Mali dominato dalle armi e dall’incertezza
In Italia se ne sta parlando poco, ma la guerra in Mali continua, e con danni – in termini di vite umane, di distruzione di edifici e di cultura, sempre più alti. I profughi, secondo alcune stime, stanno per sfiorare le 500 mila unità e ancora non esiste un piano per soccorrerli. E se l'esercito internazionale guidato dai francesi ha riconquistato l'aeroporto, i ribelli hanno lasciato dietro di loro le fiamme, appiccate – pare – alla biblioteca di Timbuctù. Una danno, storico e culturale, incalcolabile. Ma cosa sta accadendo davvero in questo paese dell'Africa sahariana occidentale? Ne parliamo con padre GiulioAlbanese, missionario comboniano, scrittore e giornalista.
Una nuova guerra in Africa e i tempi si annunciano lunghi. Che ne pensa?
«Per quanto ci si possa sforzare di essere ottimisti, quando si spara scorre sempre sangue innocente e a pagare il prezzo più alto è la povera gente. In Mali ancora una volta si sono riproposti problemi di vecchia data: è stata scelta l'opzione militare ritenendola la più efficace ed intelligente per combattere questa guerra asimmetrica contro il jihadismo e il terrorismo in uno scenario molto complesso, per l'iniziativa di uno stato, la Francia, che ha fatto avallare la sua decisione dalle Nazioni unite. Il rischio è che la guerra finisca per parcellizzare l'intero Sahel. La crisi, infatti, non è solo del Mali. La geografia esiste per noi, ma andate a parlare di confini con i tuareg, per loro c'è un unico territorio: il deserto. Il Mali, in questa situazione, è una linea di faglia, dove si sta consumando uno scontro di interessi. Si rischia una nuova Somalia perché è una guerra asimmetrica, molto difficile. Per la potenza di fuoco dei francesi, non ci sono dubbi che continueranno ad avanzare, ma il pericolo terroristico è reale. Hanno riconquistato due città che erano in mano ai ribelli, ma non significa che hanno vinto la guerra».
Cosa c'è dietro questa guerra?
«L'anno scorso, in Francia, è uscito un articolo che esprimeva una voce che girava da tempo nei circoli africani, secondo la quale quando l'ex presidente Nicolas Sarkozy dava la caccia a Gheddafi, aveva proposto ad alcuni tuareg che componevano la guardia presidenziale di consegnarglielo. In cambio, avrebbero avuto carta bianca nel nord del Mali. Dietro i gruppi jiahdisti ci sono gli ultimi mercenari che erano al soldo di Gheddafi: viene spontaneo chiedersi come mai quando hanno deciso di liberare la Libia, nessuno si sia preoccupato di cercare i loro arsenali. Armi che vengono tuttora utilizzate. Non bisogna poi dimenticare la fortissima componente salafita, finanziata dall'Arabia Saudita e dal Qatar, che in questo momento va per la maggiore in Nord Africa e in Egitto costituisce un centro di potere che non ha a che fare solo con la politica, ma anche con la finanza al fine dell'affermazione della propria ideologia. La religione, e bisogna gridarlo forte, non c'entra niente. Stiamo assistendo ad una strumentalizzazione dell'islamismo per fini eversivi, ma finché non ci sarà onesta intellettuale per distinguere la religione dall'ideologia, si continuerà a fomentare lo scontro di civiltà».
Uno scontro determinato dalla voglia di potere?
«"Dove non passano le merci, passano gli eserciti" scriveva Frédéric Bastiat, come a dire le guerre hanno sempre motivi economici alla base e allora riflettiamo. Lasciando da parte eventuali pregidizi nei confronti dei nostri cugini transalpini, chi paga la missione francese? Lo faranno i maliani, con le concessioni di oro, petrolio e uranio. E non dimentichiamo gli interessi del narcotraffico: nel Mali passa una pista utilizzata per il trasferimento delle droghe, soprattutto cocaina. Le sostanze stupefacenti dalla Guinea Bissau, dalla Liberia e dal Ghana, dove sbarcano, passano attraverso il Mali per raggiungere la sponda mediterranea e l'Europa. Eppure, nessuno si pone il problema di controllare questi, ed altri, traffici illeciti che foraggiano la ribellione. È stato previsto un comando congiunto di Mauritania, Mali e Niger per il controllo di questi traffici illeciti, ma la verità è che il mondo occidentale non ha fatto nulla per contrastarlo e i narcotrafficanti, nel frattempo, hanno fatto affari a bizzeffe. Inoltre, non è stato ancora coinvolto quello che dovrebbe essere un interlocutore privilegiato: la Lega araba. Ancora una volta si propone uno scenario drammatico e il continente africano è di nuovo il campo di battaglia».
A questo proposito, il presidente egiziano Morsi non ha nascosto la sua contrarietà all'azione francese…
«La contrarietà dell'Egitto era già stata espressa a livello diplomatico, ma solo da poco se ne sta parlando. Questo ci fa capire che in Africa non tutti la pensano allo stesso modo, come pure nel mondo arabo. Bisogna essere sinceri: questa è una guerra difficile è nemmeno uno sprovveduto può pensare che "l'armata brancaleone" costituita dall'esercito maliano possa riuscire ad avere successo. L'Ecowas/Cedeao, il blocco dei Paesi dell’Africa occidentale, non ha il becco di un quattrino. Qualcuno crede davvero che siano in grado di combattere una guerra del genere? Ma allora perché accelerare? Perché questa guerra? Qualcuno, in Francia, ha ipotizzato che la Francia non avrebbe gradito l'apertura del governo di Bamako nei confronti dei Brics (acronimo utilizzato per riferirsi contemporaneamente a Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, ndr) e che questo intervento potrebbe servire anche a riavvicinare l'ex colonia».
Dopo l'attacco terroristico, l'Algeria va considerata un altro fronte aperto della battaglia?
«L'Algeria sta dando un colpo al cerchio e uno alla botte: da un lato il governo è stato contento dell'intervento francese, dall'altro ha dovuto affrontare il rapimento e il modo in cui ha gestito tutto ha danneggiato l'immagine del Paese. Le azioni terroristiche erano prevedibili, ecco perché i francesi sono molto preoccupati».
Che ne pensa del ruolo dell'Italia, sempre più evidente, e del comportamento dell'Ue?
«Mi dispiace molto che l'Italia stia aderendo al conflitto e che ancora una volta l'Unione europea abbia dimostrato l'assenza di una politica estera unitaria. La verità è che i diversi stati si muovono come cani sciolti e quando uno, come la Francia, si muove per primo, gli altri gli vanno dietro. Ma non deve funzionare così: in questo modo si dimentica che esiste una res-pubblica cha va affermata. Manca un approccio culturale, c'è un deficit di diplomazia nelle varie cancellerie. Invece servirebbe un atteggiamento costruttivo, anche perché nella lotta al jihadismo le guerra convenzionali non hanno mai dato buoni risultati e lo dimostrano l'Afghanistan, la Somalia… Serve moderazione, buon senso, ascolto, dialogo e soprattutto il coinvolgimento vero degli altri paesi africani e del mondo arabo. Le bombe – e lo hanno dimostrato i fatti – non sono mai intelligenti e molti hanno dimenticato che, nel Sahel, c'è stata una gravissima carestia, anche per ragioni belliche. Se pensiamo di affrontarla e di salvare le persone usando le armi siamo fuori strada».