Il liutaio che dà voce a chi non ne ha
«Se ti viene in mente di fare il liutaio a 30 anni, sei troppo vecchio, perché ci vuole tanto tempo per imparare, per arrivare ad avere coscienza di quello che fai». Giulio Vecchini ha 45 anni ed esercita l’antico mestiere del liutaio da più di 20. La sua bottega si trova appena fuori dalla frazione di Camucia, ai piedi del borgo di Cortona, nella fertile Val di Chiana aretina, vicino al confine con l’Umbria. La sua specialità sono chitarre e bassi elettrici o semiacustici che costruisce interamente a mano e su commissione.
«Una volta i ragazzi cominciavano a 15-16 anni: spazzavi la bottega del tuo maestro e intanto guardavi, rubavi con gli occhi, cominciando ad imparare il mestiere». Giulio, invece, ha appreso le basi della falegnameria dal nonno Ugo, ex militare e appassionato falegname-ebanista. Nel suo laboratorio, già a 9 anni, aveva imparato a maneggiare il tornio e altri attrezzi, come la sega a nastro, la pialla, lo scalpello, la sgorbia. «Poi, a 14 anni, ho incominciato a suonare e ho visto che gli strumenti musicali erano fatti di legno: mi si è aperto un mondo!».
È così che avviene la folgorazione e si appassiona alla liuteria. Giovanissimo, comincia a costruire i suoi primi strumenti, scoprendo in quell’arte la sua strada. «A 20 anni, ho conosciuto un liutaio di Gubbio che si chiama Carlos Roberto Michelutti, d’origine argentina, bravissimo, capace di spaziare dalla liuteria classica alla moderna». Giulio gli confida la sua idea di iscriversi alla Scuola di liuteria attiva nel suo Paese. «Ma lui mi disse di lasciar perdere – ricorda –, perché ero già avanti nella mia formazione. Così, ho preso a frequentare la sua bottega».
Pochi anni dopo, Giulio si emancipa e apre il proprio studio, dove ancora oggi progetta e costruisce strumenti con il marchio “Makassar”. Dal suo lavoro è bandita qualsiasi tipo di serialità. Come un sarto, disegna e fabbrica lo strumento su misura del musicista. «Lui deve riuscire a spiegarmi bene cosa vuole, deve raccontarmi chi è lui e cosa devo mettere dentro il suo strumento», spiega.
Occorrono pazienza, capacità di ascolto, empatia per diventare un bravo liutaio. «La cosa più bella di questo mestiere è che, alla fine, crei un oggetto che, quando viene imbracciato dal musicista, è qualcosa che ne amplifica la voce, che dona emozioni, come un prolungamento della sua persona».
Alla base di tutto c’è la conoscenza del legno. «Per gli strumenti musicali – spiega – il legno deve essere essiccato naturalmente. Da noi si taglia l’albero a ottobre-novembre, quando la pianta sta andando in dormienza e scarica l’acqua per difendersi dal freddo. Tutti i capillari, le cavità dove scorreva la linfa, una volta che sono libere dal liquido, servono per veicolare il suono. Ogni qualità ha delle scanalature diverse, ha un peso specifico diverso e veicola suoni diversi». Nella sua bottega, racconta, ce ne sono ben 74 tipi! «Se in liuteria classica i legni sono tre – l’acero, l’abete per la tavola armonica e l’ebano –, in liuteria moderna si possono usare varietà dalle densità diverse, che producono suoni diversi. La liuteria è un po’ come la cucina: hai tanti ingredienti che devi riuscire a mescolare sapientemente per ottenere il risultato che vuoi: ogni legno ti dà un qualcosa, sta a te decidere come usarlo».
Appesi alle pareti del suo laboratorio ci sono i suoi strumenti del cuore: la prima chitarra elettrica che ha costruito e poi la coloratissima “Mare di mezzo” realizzata, nel 2015, con le tavole di un battello naufragato a Lampedusa. «Con il legno dei barconi dei migranti sono state fatte tantissime opere. Per lo più, però, sono oggetti inanimati, estetici, non vivi. Io ci ho costruito una chitarra elettrica intera, anche la tavola armonica, la parte vibrante – spiega –, perché volevo dare voce a chi voce non ha: in “Mare di mezzo”, è il legno dei barconi a vibrare, a raccontare simbolicamente le storie dei migranti».
L’idea gli nasce guardando in tv le notizie che riportavano l’arrivo di quelle imbarcazioni precarie, stracariche di gente. «Più che altro mi ha fatto effetto la mancata accoglienza dell’Italia. Ero molto arrabbiato per questo, perché noi siamo un popolo di migranti, abbiamo impestato tutto il mondo. Sembra che ci siamo dimenticati del nostro passato». Così, Giulio chiama la Capitaneria di porto di Lampedusa per farsi spedire le tavole necessarie. «Loro mi rispondono che la mia idea era completamente irrealizzabile, perché le carcasse dei battelli erano sottoposte a sequestro dall’autorità giudiziaria. Tuttavia, non mi sono arreso – ricorda – e, grazie all’aiuto dell’associazione On The Move di Cortona, ho contattato Francesco Tuccio, il falegname che a Lampedusa costruisce croci con le tavole dei barconi naufragati. Il mio progetto gli è piaciuto e mi ha spedito i pezzi necessari alla costruzione dello strumento». È così che nel suo studio arriva uno scatolone pieno di tavole di legno di cedro. «Erano di una barca veramente vecchia – racconta –, era stata riverniciata non so quante volte: sotto c’era il bianco, il verde, poi l’hanno fatta blu. Infine, gialla».
Seguono 6 mesi di lavoro intenso per ricavarne il suono giusto. Poi, succede qualcosa di sorprendente. Nel 2015, “Mare di mezzo” viene scelta dall’Unhcr come simbolo del concerto “World Refugee Day live”, svoltosi a Firenze in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato. Da lì, la chitarra percorre la propria strada, diventando protagonista di un progetto musicale di sensibilizzazione nei confronti delle migrazioni mediterranee. Molti gli artisti di fama internazionale che l’hanno suonata, da Carlos Santana a Patti Smith e Bob Geldof, solo per citarne alcuni. Ma anche gli italiani Jovanotti, Vinicio Capossela, Eugenio Finardi, i Modena City Ramblers e tanti altri. Nel 2022, alla fine di un pellegrinaggio a piedi lungo la via Lauretana e la Francigena, Giulio ha potuto suonare “Mare di mezzo” anche davanti a papa Francesco, che lo aveva ricevuto in udienza.
«La liuteria è il mio linguaggio – confida Giulio –. Il mio modo per raccontare le cose, per poter dire la mia». E mentre parla, tira giù dal muro un’altra chitarra. «Lei si chiama Elettra e non è ancora finita. È nata dal legno di una scatola che ho trovato per caso (chissà?) da un antiquario. Grazie ad un medico, ho scoperto che, un tempo, era usata per fare l’elettroshock. Con lei vorrei raccontare dell’incomprensione dell’uomo verso i più fragili, verso chi è considerato diverso». La rigira fra le mani, accarezzandone la superfice. «Cosa c’è di più bello che prendere un oggetto come questo, che ha fatto tanto male, distruggerlo e ricostruirlo, facendo passare il suono là dove prima transitava l’elettricità? Sarà una specie di espiazione per lui».