Il limite che non uccide la speranza

Il suicidio del regista Mario Monicelli e i sopravvissuti alla tragedia di Lampedusa dell'ottobre 2013, hanno interrogato due psicoterapeute sullo stretto rapporto esistente tra l'esperienza della finitudine umana e la volontà di vivere e credere anche in situazioni estreme
Limite è speranza copertina

Ostacolo o punto di partenza. Al di là di quello che pensiamo comunemente, il limite non ha sempre e solo una faccia, per di più negativa. Spesso può rappresentare una sfida, l'occasione per andare oltre e farci migliorare. Sul senso e sul valore da attribuirgli si sono interrogate Rita Corsa e Lucia Monterosa, psichiatra la prima e psicologa la seconda, entrambe psicanaliste, e lo hanno fatto nel loro libro scritto a quattro mani Limite è speranza, edito da Alpes. Nelle pagine del volume, le due studiose, ciascuna nel proprio ambito di competenza, sono entrate dentro al senso del limite, sia per i propri pazienti, sia per chi, come loro, opera nella psicanalisi e di conseguenza anche su ciò che deve intendersi per speranza.

“Questo libro – spiega una delle due autrici, Lucia Monterosa – nasce da una serie di riflessioni sui limiti del nostro lavoro di operatori, in particolare nelle situazioni in cui sembra che non ci sia più nulla da fare. Una prospettiva che prende in considerazione da una parte il paziente e dall'altra anche chi cura, chi deve affrontare difficoltà personali o nei casi estremi il fine vita. Si è trattato di un lavoro nato dal desiderio di studiare le competenze del lavoro, mio e della mia collega co-autrice, e le sue prospettive concrete, di come guardare al futuro e la speranza di vedere un orizzonte davanti a sé. Ecco perché nel titolo c'è un verbo e non la congiunzione”.

Sono state due le sollecitazioni che hanno portato alla stesura del libro: la notizia del suicidio del regista Mario Monicelli, preceduta poco tempo prima da una intervista nella quale affermava di non credere nella speranza, e l'esperienza del salvataggio di alcuni migranti naufragati a Lampedusa, da parte di alcuni turisti.

“Sono rimasta molto colpita dal racconto di un gruppo di persone che nell'ottobre 2013 videro morire dei migranti nel Mediterraneo. Soprattutto – continua Lucia Monterosa – il racconto dei primi soccorritori, degli escursionisti, che descrissero il corpo a corpo drammatico avuto nel tentativo di salvare altri uomini che però scivolavano perché unti di petrolio. Questo fatto mi sembrava un miracolo, solo lì ho intravisto la speranza nella fatica e ho iniziato il mio lavoro partendo da quella suggestione”.

Gli interrogativi che si sono poste le due autrici riguardano soprattutto le situazioni  limite nel loro lavoro quotidiano: le malattie terminali e il limite oggettivo che pongono ai pazienti, ma anche tematiche psicologiche quali l'accettazione di trapianti di organi o di impianti meccanici. Al di là dei casi estremi come il fine vita, un altro limite riscontrato nei pazienti è ad esempio quello della mancanza di fantasia che si esprime nell'assenza di sogni. “Ci sono pazienti – sottolinea la Monterosa – che non riescono ad attingere a una dimensione fantastica e di ricordo del proprio passato. Sembrano persone attaccate solo al concreto”. Una incapacità che secondo l'autrice non risiede tanto nell'attuale crisi economica, perché “ogni epoca – afferma la psicologa – ha le sue trasformazioni e anzi credo che a volte possano aprire al paradosso e rappresentare delle prospettive, la possibilità di accedere a nuovi valori”.

Diverso è invece il giudizio sull'uso, o meglio l'abuso, dei social che può creare una “finta socializzazione”. In questo caso il ruolo e la funzione della famiglia, intesa come luogo degli affetti, è fondamentale. Per questo motivo, per poter svolgere tale funzione ha bisogno di politiche che la aiutino e la sostengano.

“Non so se oggi siamo più fragili rispetto a periodi precedenti – conclude Lucia Monterosa – . Ciò che vedo è che il limite è quello che c'è nell'esperienza sempre più ridotta di ascoltare e ascoltarsi, come se non fosse più fondamentale uno spazio di reciprocità e di costruzione. Il ruolo della speranza è quello di essere una spinta necessaria al fare, che implica un agire, un lavoro costante e non qualcosa che ci arriva dall'alto. Possiamo definirla una ricerca. Io e Rita Corsa – conclude la Monterosa – abbiamo introdotto la categoria della speranza nel pensiero della psicanalisi, perché riteniamo che in un momento come questo dobbiamo credere nella nostra professione: la speranza appartiene a noi operatori che cerchiamo di farcela e ai nostri pazienti che credono e sperano di trovare in noi un aiuto.

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