Il “libro bianco” di Dag Hammarskjold
In una limpida giornata della primavera 1953, arrivò a New York un uomo il cui nome, sebbene impronunciabile, aveva fatto in quei giorni il giro del mondo. Era Dag Hammarskjöld, sconosciuto all’altra sponda dell’Atlantico, appena nominato segretario generale al Palazzo di Vetro. Agli operatori dei media che lo presero d’assalto, egli lesse una breve dichiarazione: Voglio fare un lavoro, non parlarne. Neppure dopo. Tanto meno prima, a spiegare lo stile con cui intendeva condurre il suo lavoro. Le mie opinioni personali non sono – o non dovrebbero essere – per voi più interessanti di quanto lo fossero due settimane fa, a chiarire che nella sua nuova veste di funzionario civile internazionale, l’uomo privato doveva cedere il passo all’uomo pubblico. Una dichiarazione breve, sintetica, che non poteva dire molto a chi avvicinava per la prima volta quel quarantasettenne nordico dagli occhi azzurri e dall’espressione aperta e insieme poco incline alla confidenza. Ma, lette retrospettivamente, quelle poche righe tracciavano un quadro netto, senza chiaroscuri, della linea politica che in quegli anni avrebbe caratterizzato l’azione dell’Onu al massimo livello. Ad essa è dovuto non poco del successo della sua diplomazia, dalla crisi di Suez al conflitto coreano, dalla questione indocinese al Congo. Il metodo seguito da Hammarskjöld fu quello della riservatezza e della diplomazia segreta. Ciò non vuol dire che il suo fosse un ruolo di spettatore o di mero esecutore. Essa si concretizzò nella prassi politica della neutralità attiva che doveva, secondo Hammarskjöld, caratterizzare la condotta dell’organismo internazionale al di sopra, e comunque al servizio, delle nazioni, senza preferenze. A quanti obiettavano che è inutile imporre una legge se non si è in grado di farla osservare, egli rispondeva che, se la legge in questione è quella destinata ad imporsi nel futuro, sarebbe un tradimento nei riguardi del futuro non enunciarla. Una simile lucidità e fermezza gli venivano da anni di studio, di lavoro nei posti più impegnativi del suo paese, dal carattere. Ma non poca influenza ebbe su di lui – e Hammarskjöld lo ammise più volte – l’ambiente in cui visse e crebbe. In Svezia gli Hammarskjöld erano una delle grandi famiglie. Fin dal tempo in cui, dal 1610, questo nome, che significa martello-scudo, fu dato dal re Carlo IX al capostipite della famiglia per essersi comportato valorosamente in battaglia. Per intere generazioni gli Hammarskjöld avevano servito il paese in posti di responsabilità, e ciò non poteva non influire sul giovane Dag. Da generazioni di soldati e di uomini di governo della mia ascendenza paterna – scrisse nel 1954 – ho ereditato la persuasione che nessuna vita dava maggiore soddisfazione che una vita di servizio disinteressato al proprio paese e all’umanità. Dagli studiosi e dai pastori della mia ascendenza materna ho ereditato la convinzione che, nel vero senso dell’evangelo, tutti gli uomini sono uguali come figli di Dio e devono essere incontrati e trattati da noi come i nostri signori in Dio. Ultimo di quattro fratelli, egli nacque il 29 luglio 1905. Salvo la breve parentesi di tre anni in cui il padre fu primo ministro a Stoccolma, egli visse a Uppsala, dove compì i suoi studi universitari. La sua infanzia trascorse tra il castello del governatore, dove abitava la sua famiglia, e il palazzo arcivescovile che sorgeva presso la cattedrale luterana, sede del primate di Svezia. Gli Hammarskjöld e la famiglia del vescovo luterano Nathan Soderblom erano legati da una stretta amicizia, e i figli delle due famiglie crebbero insieme. Uomo di grande cultura ed apertura, Nathan Soderblom fu uno degli iniziatori del movimento ecumenico, promotore della prima grande assemblea di Vita e azione, che più tardi formò l’ossatura del consiglio ecumenico delle chiese. Il giovane Hammarskjöld, secondo gli amici, era un allegro compagno, benché non amasse molto balli, feste ed altre manifestazioni mondane. Con lui era particolarmente piacevole discutere di qualsiasi argomento e fare un’escursione in montagna. Ma per quanto socievole e brillante, egli aveva un carattere riservato. Non pochi furono gli amici che, dopo la sua morte, alla pubblicazione del suo diario, scoprirono un Dag sconosciuto. Durante una missione in Congo nel 1961, il suo aereo ebbe un incidente. Probabilmente fu abbattuto. Dopo la morte, nel suo appartamento a New York fu rinvenuto una specie di diario, pubblicato in seguito col titolo Markings. Nell’introduzione, lo stesso Hammarskjöld lo descrive come una sorta di libro bianco che narra i negoziati con me stesso e con Dio: espressioni che derivano dai linguaggi della diplomazia. In effetti, la vita di Hammarskjöld era piena di affari politici al massimo livello internazionale, e questo suo background fa del diario un libro unico nel suo genere. Qualcuno l’ha accostato alla grande biografia spirituale di sant’Agostino. Quando fu pubblicato, fece scalpore. Anche chi lo aveva conosciuto da vicino, non avrebbe immaginato che quest’uomo politico dal pensiero estremamente logico e dall’azione infaticabile avesse una vita spirituale così intensa e profonda. La sua fede in Dio, il significato di questa fede e la natura delle sue domande sul senso della vita, espresse con rapide annotazioni spesso scritte nella solitudine della tarda serata, furono tuttavia poco compresi ed apprezzati. Non pochi lettori trovavano a ridire su questo cristiano esagerato, che a modello dell’imitazione di Cristo trovava la parola sacrificio come cifra fondamentale anche della politica. Non a caso, aveva portato con sé nell’ultimo viaggio il libro scritto da Tommaso da Kempis. Il diario copre un periodo di due decenni, e può essere considerato come un percorso spirituale in compagnia dei grandi del passato. La scoperta della Bibbia e dei Salmi, ma anche di mistici del tardo Medioevo, Meister Eckhart e Giovanni della Croce in particolare. Ma anche i contemporanei ebbero un largo influsso su questo percorso. Specialmente Albert Schweitzer, ed il filosofo Martin Buber. Aveva conosciuto l’opera del pensatore ebreo, e ne era rimasto affascinato. Un uomo come lui, impegnato costantemente nella pratica esigente e difficile del dialogo, non poteva non essere attratto dal pensiero di un filosofo come l’autore di Ich und Du che poneva il principio dialogico come il fondamento del senso dell’esistenza. Lo invitò al Palazzo di vetro, e lo incontrò altre due volte a Gerusalemme. La recente edizione del suo diario in Italia, curata dalla Comunità di Bose e il profilo del pastore valdese Franco Giampiccoli (Claudiana Ed.), in cui si tenta una lettura sincronica ed incrociata del diario e degli eventi-chiave del periodo in cui lo statista fu alla guida dell’Onu, riportano alla ribalta questo uomo di fede che – come De Gasperi, Adenhauer, Giordani – ha inteso la sua adesione al vangelo come molla segreta del proprio impegno politico. Di certo,Hammarskjöld non può essere inquadrato in un rigido schema teologico. Egli è piuttosto un mistico ed un laico al tempo stesso, profondamente immerso nelle questioni politiche al massimo livello. Il suo impegno a servizio dell’umanità fu così grande che egli stesso ne parlò come di una vocazione. Descrisse la debole organizzazione delle Nazioni Unite come il sogno dell’umanità, e fu pronto a servirlo a costo di qualsiasi sacrificio personale.