Il librarsi della bellezza

Il giorno in cui Yang Saon morì, il suo ideogramma “volare” si librò in aria, attraversò la finestra e sparì nel nulla. Imprigionato fino ad allora nella carta, immolato alla nobile causa della scrittura, aveva infine realizzato l’idea che esprimeva. In quelli, opera il maestro ci aveva messo tutta l’anima, era giusto che abbandonasse con essa la Terra. Una bella storia. Peccato che sia solo una leggenda. In compenso, Yang Saon (1517-1584) è realmente esistito, era un grande maestro coreano dell’arte orientale per eccellenza: la calligrafia. Se queste cose vi interessano, leggete L’uccello dalle ali d’oro di Yi Munyòl. È un libriccino di centosettanta centimetri cubi (10 x 17 x 1 cm). Anche i più restii alla lettura riuscirebbero ad affrontarlo. Per la cronaca, Yi Munyòl è uno dei più prestigiosi scrittori contemporanei della Corea del Sud. Io l’ho letto in due ore, interrotto da due telefonate. Poi l’ho riletto in tre, soffermandomi su alcune pagine che mi hanno fatto pensare. L’uccello dalle ali d’oro è un animale mitico. Una gemma incantata brilla straordinariamente sulla sua testa, dal becco escono lingue di fuoco come fiori rossi, come nuvole meravigliose sospese sulle acque azzurre del mare. Con uno tuffo vigoroso si immerge nelle profondità marine, afferra il drago e risale con esso verso l’infinità celeste. L’uccello dalle ali d’oro è un romanzo sulla vera essenza dell’arte, sulla dialettica tra arte moderna e classica. Cose delle quali non mi intendo particolarmente, dunque non parlerò. Vorrei raccontarvi invece un episodio significativo, che accade quasi all’inizio del libro, ma si capisce verso la fine. Per farlo devo necessariamente abbozzare la trama. Kojuk è un giovane dotato di un talento innato per la calligrafia. Affidato alla tutela del maestro Soktam, inizia il suo travagliato percorso umano e artistico. Il maestro lo tratta con distanza e sospetto, imponendogli un apprendistato durissimo, quasi col presagio di eventi funesti che oscureranno la vita del suo discepolo. “Se ricopierai questo testo cento volte, avrai costruito le tue basi. Se lo ricopierai mille volte, ti sentirai dire che scrivi bene. Se lo ricopierai diecimila volte, allora si dirà che sei un calligrafo di gran nome”. Agli allievi che lo elogiano dice incollerito: “Tutto ciò che sa fare è imitare e basta”. Kojuk ama e odia il suo maestro con eguale intensità. Lo ammira e imita di nascosto, ma non riesce a perdonargli la sua ingiustificata durezza. Intanto si esercita come calligrafo e pittore, prende coscienza del suo talento. Un giorno decide di riscattarsi. A ventisei anni, finito l’apprendistato, lascia il maestro senza neanche avvertirlo e va nel mondo. Nel giro di tre mesi fa un cammino artistico trionfale, vince numerosi premi, è ospite d’onore in vari centri di studi confuciani. Torna a casa carico di orgoglio, carta e sacchi di cereali ottenuti in cambio per i suoi quadri e le sue calligrafie. Il maestro lo vede da lontano e gli corre incontro. Conoscendo i metodi usati col discepolo, non ci aspettiamo certo un’accoglienza alla “padre del figliol prodigo”. Infatti, Soktam, sbarratagli l’entrata, sentenzia: “Scarica quella roba e posala lì. Sfilati la borsa dei pennelli e siediti sopra la roba che hai portato”. Kojuk non sa cosa ha in mente il maestro, non può saperlo, dunque obbedisce. Soktami tira fuori dalla manica un cerino e mette fuoco a tutto. “Da ora in poi non permetterti mai più di chiamarmi maestro”. Un atto estremo che in un primo istante ci turba. Condanniamo decisamente il maestro. Con la sola durezza non si ottiene niente nella vita. Preferiremmo un abbraccio paterno-materno che ribattezzi il figliol prodigo a nuova vita. Nel frattempo il discepolo dovrà sopportare durissime umiliazioni, lavorando per ben due anni come contadino e taglialegna accanto al maestro che si rifiuta anche di vederlo. Fino a ricevere il perdono. E neppure allora capirà la lezione. Chi ha sperimentato l’ebbrezza che accompagna la scoperta di un talento, sa da quali tentazioni bisogna guardarsi. Il desiderio di apprezzamento da parte degli altri, il bisogno di dare alle proprie opere valore e riconoscimenti distolgono dalla missione che quel talento porta con sé. Ci si dimentica che è un dono e va sviluppato, nel tempo. Il giusto rapporto tra l’artista e il suo talento è un rapporto di servizio. Nel senso che un talento è sempre a servizio dell’uomo. Giammai il contrario. Sembra una cosa ovvia, ma nella pratica può risultare difficile. È assolutamente vitale conservare un rapporto puro. Questo il maestro lo sa bene. Così, quando mancano ormai una decina di pagine all’epilogo, dopo averci ripensato, finiamo per dargli ragione (pur continuando a non condividere i modi). E pensiamo che anche noi vorremmo qualcuno che ci metta in guardia di fronte alla nostra stessa stupidità, alla fretta, alle emozioni. E ci insegni l’esercizio, la pazienza, la fatica. Invece il mondo, troppo spesso, adula i giovani Kojuk cantanti, attori, scrittori, appena brillano di un talento nascente, non facendo altro che bruciarli. Se solo ci fosse un maestro a metterli in guardia, che abbia il coraggio di bruciare la loro superbia e impazienza, per non bruciare il loro talento, forse ci sarebbe più luce in giro. E forse lo vedremmo, distintamente, stagliarsi contro il cielo, con le sue ali dorate, il mitico uccello… Le ultime pagine sono le più belle. È di quelle, in realtà, che avrei voluto parlare. Kojuk sta ormai per concludere la sua avventura, ma non può andarsene così. Deve sapere se la sua vita appassionante e contraddittoria, i successi, gli insuccessi, se tutto questo ha avuto un senso, o meglio, ha avuto “il senso” da sempre inseguito. Perché il percorso di Kojuk non è stato altro che un inseguire l’animale mitico, simbolo sublime del suo ideale di bellezza, con la speranza struggente di vederlo, almeno una volta, librarsi dalla punta del suo pennello. A quel momento di cristallina e assoluta bellezza sono conversi tutti i suoi sacrifici, errori, tentativi, a volte indegni, di darle una forma. È questo in fondo il sogno di ogni artista. Kojuk farà una pazzia, di quelle spettacolari, da gran teatro. Mi fermo qui, non voglio ledere altri diritti fondamentali del lettore. Yi Munyòl, L’uccello dalle ali d’oro, Edizioni Giunti, “collana Dorian Gray”.

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