Il Leone torna in Europa

Pochissimi brutti film, qualcuno brutto, tantissimi passabili, diversi buoni, nessun capolavoro: questo, in scarna sintesi, il panorama offerto dalla 59ª Mostra del Cinema di Venezia. Un quadro mediocre, dunque, anche se non desolante, scaturito in parte dal momento difficile in cui versa la rassegna veneziana e in parte dalla stasi artistica che affligge il cinema internazionale alle prese con una crisi che è soprattutto di linguaggio. Dunque onore al merito del neodirettore della rassegna veneziana, il tedesco Moritz De Haden, che in soli quattro mesi è riuscito a salvare la Mostra dal naufragio allestendo un’edizione assolutamente dignitosa anche se un po’ sottotono. I premi Dei film in concorso solo quattro o cinque hanno lasciato il segno e il Leone d’Oro, polemiche a parte, è andato al film più apprezzato da critica e pubblico, The Magdalene Sisters dello scozzese Peter Mullan, regista attento, dotato di sensibilità narrativa e senso dell’immagine (vedi box). Meno bene è andata a un altro bel film, L’homme du train, di Leconte – storia dell’incontro e della breve amicizia tra due anziani, un professore in pensione e un rapinatore di banche – rimasto senza premi, come del resto Dolls, uno dei film più intensi e poetici di Kitano. Più fortunato il coreano Oasis, di Lee Change Donge, in cui viene affrontato con efficacia il difficile tema dei rapporti sentimentali tra portatori di handicap, che ha vinto il premio speciale per la regia. La giuria ha premiato anche Far from heaven di Todd Haynes, che, riproponendo con fedeltà stilistica i melo americani degli anni Cinquanta, ha compiuto un’operazione interessante, ma che rasenta l’esercizio di stile. Difficile da comprendere, invece, il premio della giuria assegnato a Dom durakov di Konchalovsky, considerando che pellicole ben più interessanti sono rimaste al palo. I tre film italiani in gara non hanno impressionato più di tanto. Bene l’esordiente Vicari con il suo Velocità massima, ambientato nel microcosmo delle corse clandestine. Meno bene Un viaggio chiamato amore di Michele Placido, a cui non riesce del tutto il tentativo di portare sullo schermo la tormentata storia d’amore tra Dino Campana e Sibilla Aleramo. Debole, invece, La forza del passato di Piergiorgio Gay, in cui i mali di certo cinema italiano affiorano frequentemente. Cosicché la Coppa Volpi a Stefano Accorsi (protagonista del film di Placido) suona un po’ come premio di consolazione per il paese ospitante, mentre uno dei film italiani più apprezzati (Due amici di Scimone e Sframeli, premiato come miglior opera prima) non era in concorso. I temi Una rassegna come quella veneziana non può che rappresentare un’estrema varietà di tematiche e argomenti, ma forse mai come quest’anno si è avvertita la presenza di un tema dominante, quello della malattia. Malattia subita come dolore privato e personale (Dolls, L’homme du train, Un viaggio chiamato amore, Meili Shiguang), affrontata nel dramma sociale del rifiuto del malato (Oasis, Dom durakov), vissuta come motivo di ricerca interiore (Public Toilet, Julie walking home), sfruttata per mero profitto economico (Dirty pretty things, Ripley’s game), utilizzata come molla per il riscatto personale (Blood work). In molti di questi film i personaggi sono veri, reali, credibili nella loro dolorosa normalità, come i due portatori di handicap di Oasis alla ricerca di un’impossibile felicità. Sono personaggi e storie lontani anni luce dalle tranquilizzanti e consolatorie icone di famosi pittori tetraplegici, autistici o schizofrenici geni matematici che hanno fatto la fortuna di certo cinema hollywoodiano. Una ricerca così ampia sui temi della malattia e del dolore sembra quasi testimoniare il crescente bisogno di una parte del cinema e della società di indagare nelle pieghe più dolorose di questo aspetto del vivere quotidano. L’evento L’evento che più di ogni altro ha caratterizzato la rassegna veneziana èstato senza dubbio il film collettivo sull’11 settembre: undici corti di undici minuti ognuno sulla strage delle Twin Towers realizzati da altrettanti registi di tutto il mondo (tre asiatici, due africani, quattro europei, due nordamericani). Un film, il cui insieme vale più delle singole parti che lo compongono. Dentro c’è di tutto: il dolore, la speranza, la pietà per le vittime, il senso della storia e quello della tragedia, la dimensione politica, quella umana, persino l’ironia e l’umorismo. Ad accomunare tutti gli episodi, si avverte una voglia di indagare per capire e comunicare, fuori di ogni retorica e da punti di vista culturali, sociali e geografici assai diversi, le ragioni di quel dramma. Un’operazione coraggiosa e riuscita, visto che l’11 settembre 2002 è stata sicuramente la proiezione più emozionante, affollata e applaudita della Mostra. Il cinema stanco Ad ogni modo, quanto visto a Venezia quest’anno conferma che è in corso una crisi del cinema. Non sono segnali eclatanti, ma ormai da diversi anni si registrano sempre gli stessi commenti: mancano i capolavori, imperversa la mediocrità, faticano a imporsi nuovi linguaggi. A Hollywood il prevalere delle esigenze prettamente industriali e commerciali ha imposto un livellamento verso il basso dell’offerta cinematografica forse come mai in passato; l’Europa stenta a rinnovarsi, non riuscendo più a esprimere avanguardie credibili e durature. Anche i paesi asiatici segnano un po’ il passo (dopo Cina, Hong Kong e Iran ora sembra la volta della Corea). Insomma, il cinema è stanco e a poco più di un secolo dalla sua nascita arranca alla ricerca di qualcosa di nuovo con cui rilanciarsi nuovamente. Ma nonostante questo contesto niente affatto rassicurante, la Mostra del Cinema di Venezia ha testimoniato ancora una volta come i festival cinematografici rimangano i luoghi per eccellenza dove riscoprire tutto l’incanto, la magia e il fascino che ancora oggi il grande schermo è capace di regalare. Il caso Magdalene Naturalmente, polemica. Lo scozzese Peter Mullan, personalità poliedrica del cinema britannico, l’ha cercata apposta (vedi le numerose interviste rilasciate) col suo provocatorio, spiazzante film-verità sugli istituti religiosi irlandesi di rieducazione per “peccatrici” reali o presunte, sfruttate come lavandaie in condizione da lager. Ben recitato e tecnicamente valido, il film tuttavia pecca per un unilateralismo eccessivo, dove la religione è vista solamente come forma di repressione, con una rabbia di fondo che impedisce allo spettatore un giudizio sereno sui fatti – se reali – e al regista di elevarsi oltre la denuncia. Purtroppo, a volte l’odio o il pregiudizio ideologico possono offuscare la ragione. g.s.

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