Il lavoro non si crea per legge, ma
I dati sempre più preoccupanti dell’Istat sulla crescita della disoccupazione in Italia (13 per cento in generale e 42,3 per cento quella giovanile secondo i dati di febbraio) arrivano in contemporanea con la visita a Londra del presidente del Consiglio italiano, andato a prendersi il plauso da parte del primo ministro David Cameron, espressione del Partito conservatore, sul suo programma di riforme (più flessibilità per battere la disoccupazione). Una conferma della tesi condivisa sul superamento delle ideologie, come hanno sottolineato le dichiarazioni congiunte dei due giovani leader dopo il cordiale incontro avvenuto al numero 10 di Downing Street.
Meno consensi riceve, all’interno dello stesso partito di Renzi, il piano governativo del lavoro avviato con il decreto del ministro del Lavoro Poletti. Critiche e opposizioni si concentrano sull’adozione delle nuove norme su contratti a termine e apprendistato, considerate come fonte di nuova precarietà. Come notano Tito Boeri e Pietro Garibaldi, due economisti di punta del sito lavoce.info, considerati in qualche modo il punto di riferimento del progetto governativo di introdurre, come forma prevalente, il contratto unico a tutele crescenti, «gli articoli 1 e 2 del decreto sembrano ripresi pari pari dagli articoli 3 e 4 della proposta di legge Sacconi, Albertini, Berger e Casini. È ora possibile assumere per otto volte nell’arco di tre anni un lavoratore con un contratto a tempo determinato di 4/5 mesi. L’unica differenza è che Sacconi e altri mettevano questi articoli in un disegno di legge delega, mentre il governo Renzi li ha messi in un decreto d’urgenza, di efficacia immediata».
Cosa pensa un sindacato che si definisce pragmatico e che sembra non esprimere una decisa contrarietà rispetto a questa decisione? Lo abbiamo chiesto a Sandro Pasotti, dell’ufficio sindacale nazionale dei metalmeccanici della Cisl, che lamentano una carenza di visibilità mediatica sulla grande stampa che preferisce dare spazio alla Fiom di Landini, coinvolta ultimamente in uno scontro intestino con la segreteria generale della Cgil.
Come valutate la nuova disciplina sui contratti a termine e l'apprendistato?
«Occorre, come sempre, separare il grano dal loglio. L’obiettivo di semplificare e favorire le due tipologie contrattuali può essere condiviso se esse progressivamente sostituiranno le forme più precarie di rapporto di lavoro, quali ad esempio i co.co.pro, le partite Iva, il lavoro intermittente, i falsi stage, l’associazione in partecipazione. Non c’è alcun dubbio, infatti, che nel percorso accidentato di ingresso nel mondo del lavoro dei giovani, se venisse privilegiato il contratto di apprendistato o anche quello a tempo determinato saremmo di fronte a un notevole miglioramento e si ridurrebbe la precarietà. Il provvedimento avrebbe comunque bisogno di alcune modifiche.
«Per quel che riguarda il contratto a tempo determinato il problema non è rappresentato dalla sua durata massima (36 mesi), durata che era già prevista anche nelle precedenti normative, quanto dalla possibilità di arrivare fino ad otto proroghe. Questa misura non è utile neanche per le imprese e potrebbe configurare rapporti di lavoro molto brevi, continuamente prorogati, lasciando a lungo il lavoratore nell’incertezza. Inoltre il limite del 20 per cento dell’organico totale dovrebbe comprendere tutte le forme contrattuali cosiddette flessibili.
«Per quel che riguarda l’apprendistato è un errore rendere "precaria" la formazione, che è il vero valore aggiunto di questa tipologia contrattuale. Va perciò reintrodotto l’obbligo da parte delle aziende della consegna di un piano formativo individuale e ripristinata la formazione pubblica relativa alle cosiddette materie trasversali. Si potrebbe inoltre prevedere l’introduzione di incentivi alle imprese che confermano a tempo indeterminato».
Quali sarebbero, a vostro parere, gli interventi necessari per rilanciare l'occupazione stabile e di qualità in Italia?
«È evidente che gli interventi sul mercato del lavoro e sulle tipologie contrattuali non sono risolutive. Non si crea lavoro per legge. Occorre accompagnare questi interventi con investimenti nel campo della ricerca, della scuola, e nei settori che non solo oggi, ma anche in prospettiva, possono essere strategici per il nostro Paese, riducendo i costi dell’energia e con investimenti nelle infrastrutture. Lo si fa, anche, sostenendo i consumi interni attraverso la riduzione della tassazione.
«Su questi punti vi è una prima importante risposta da parte del governo sul tema tassazione; manca invece totalmente, almeno per ora, una politica industriale che individui i nodi critici e le aree sulle quali intervenire. Nelle intenzioni a suo tempo dichiarate dal presidente del Consiglio con la newsletter in cui annunciava il cosiddetto Job act veniva anche detto: "Il Jobs act conterrà un singolo piano industriale con indicazione delle singole azioni operative e concrete, necessarie a creare posti di lavoro in sette settori considerati strategici: cultura, turismo, agricoltura e cibo, made in Italy (dalla moda al design, passando per l’artigianato e per i makers), ICT, Green economy, Nuovo welfare, edilizia, manifattura”.
«L’individuazione delle aree su cui intervenire è ampiamente condivisibile e soprattutto risponde alle necessità che anche come Fim-Cisl abbiamo più volte indicato. Restiamo in attesa che vengano presi provvedimenti in tal senso che comunque non sono ulteriormente rinviabili».