Il lato lirico delle cose

A Conegliano, questa si fa evidente attraverso una rassegna di lavori dal 1919 al 1945. Sono ritratti, paesaggi, nature, figure mitiche o metaforiche. È un’altra visione, rispetto alla precedente: si volge al lato “lirico” delle cose, nella continuità con la tradizione. Ma è fortemente innovatrice nella sostanza: la vena malinconica che l’attraversa, ha qualcosa di accorato, un guardare lontano ed attendere: una poesia che cerca di elevarsi, oltre la storia. La famiglia del povero Pulcinella di Severini (1923), è quasi una icona dell’arte italiana: dolce e triste, composta e arcaica: sembra chiedersi: quale futuro ci attende? Per De Pisis invece tutto si concentra nella fibrillazione nervosa dell’attimo. Segni rapidi, colori agrodolci, in Quai Voltaire (1939) e nella Natura morta (1929): una di quelle opere in cui un pittore d’istinto fa di un piccolo olio su cartone una gigantografia della vita (sua e nostra) che passa e va. Immettendovi un amore palpitante per tutto ciò che esiste, un affetto che non vorrebbe sgranarsi e finire, come in un verso di Saba. Ma se la “lirica” di De Pisis si concentra sull’oggi, quella di Carrà e Morandi spazia verso più ampie armonie. Rifluisce in loro la sorgiva diremmo “metafisica”, tipicamente italiana, detta con parole ormai nuove. Carrà cogliendo il silenzio – ormai quasi impossibile, nel mondo assordante – delle acque e delle baie, voci appena luminose dello spirito, in tinte di aurora incerta. Morandi, “dicendolo” questo spirito che aleggia sui colli e sui monti dei paesaggi o che si esprime nella geometria di una natura morta. Vicino a De Chirico per il senso metafisico delle cose, Morandi se ne differenzia per il suo discorso doloroso: la cromia e il segno “distaccati” dalla preziosità e dal reale, il “cantus firmus” alto, per cui un vaso, un albero sono parole universali. I Fiori (1928) i Paesaggi (soprattutto quello 1943) sono, nella loro potenza espressiva, non solo un canto alato, ma uno straordinario lavoro di intelligenza: perché Morandi “si astrae” dalla creazione, riducendola a puro spazio e quasi a non-forma materica, per guardarla dall’alto nella sua unità. Davanti ad una conquista così grande, si fa certa una convinzione: l’arte del novecento italiano conosce vertici impensabili. Tutti da scoprire. IL PRIMO ‘900 SI FA IN TRE. Luce e pittura in Italia, 1850-1914. Roma, Fondazione Olivetti (catalogo Mazzotta). Già pronta per Bruxelles, Madrid, Londra e New York, la rassegna indaga le radici del novecento nostrano, attraverso Fattori, Zandomeneghi, il visionario Pellizza e il simbolico Segantini, facendo della ricerca luministica lo specifico italiano. Fra i capolavori: l’inquietante Idolo moderno (1911) di Boccioni e Le Compenetrazioni di Balla (1912).

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