Il labirinto dell’amore
Kenneth Branagh di Pene d’amor perdute ne fece un film in puro stile Broadway, dove i versi di Shakespeare sfociavano armoniosamente nelle liriche di Gershwin e di Cole Porter. Una vera e propria festa per gli occhi e le orecchie. A dimostrazione che anche la commedia musicale si addice al Bardo. Non è da meno, per godibilità, brio, e inventiva, la versione di Marco Carniti sulle tradizionali tavole del palcoscenico, dal marchio tutto giovanile. Commedia poco frequentata, Pene d’amor perdute è un omaggio all’amore, quello che non può essere promesso né in gioco, né con vane parole, per essere creduto vero. L’esile canovaccio vede il giovane re Ferdinando giurare insieme ai suoi tre Lord attendenti, di dedicarsi, isolandosi per tre anni, solo allo studio rinunciando a ogni vizio e soprattutto alla presenza femminile. Il giuramento inevitabilmente si infrangerà all’arrivo della principessa di Francia con damigelle al seguito. Tra smorfie e flirt finiranno col lasciare i quattro vittime dell’amore, impauriti dall’idea di spezzare, gli uni agli occhi degli altri, il giuramento. Ma, come un deus ex machina, a raffreddare gli animi giunge la notizia della morte del padre di una delle fanciulle. Quello che fino ad allora sembrava un divertimento costringerà tutti a ben più serie considerazioni su quei sentimenti nati per gioco. Per verificare la verità del loro amore, e non del mero capriccio, le coppie si imporranno di vivere separate per un anno intero. La commedia, che mescola linguaggi diversi e brillanti, trova piena sintonia con lo smalto drammaturgico di Carniti, il quale plasma sui diciotto giovani attori – da elogiare in blocco – un concertato di voci, canti, danze e musiche. Una gara di caratteri – ma senza la malinconia poetica del Bardo – esaltati da una scenografia dai fondali di colori accesi e una pedana obliqua con insenature a forma di labirinto: metafora della ricerca dell’amore, del perdersi e del trovarsi. La solitudine di Otello Dopo l’Otello di Nekrosius, ancora impresso nella memoria, credo che qualsiasi altra messinscena della tragedia scespiriana, forse risulti irraggiungibile per acutezza di lettura e relative emozioni. Se nella versione del regista lituano prevaleva fortemente l’aspetto passionale e barbarico, nell’allestimento di Calenda il protagonista è invece colto nella sua solitudine. Riempita da un flusso di parole ingannatrici: quelle di Iago, divorato dalla gelosia. Si insinuano come lame nella mente del Moro, fino a distruggerlo. Sono le parole, quando hanno radici malefiche, le artefici dell’inspiegabile crudeltà con cui un uomo giunge a tormentare un proprio simile per il gusto del male. Malattia dell’anima, sempre in agguato, se guardiamo agli attuali scenari di guerra. Si muove solitario l’Otello di Calenda: il “diverso” per pelle e cultura, straniero più che mai in terra di Cipro, e prigioniero della sua gelosia. Al senso di prigione rimanda la nera scenografia di Bruno Buonincontri: sotterraneo o cupa fortezza, con due pesanti grate. Scenderanno infine a rinchiudere i personaggi, alludendo a un senso di schiavitù mentale; ma anche alla trappola ordita da Iago. È lui il vero protagonista. Lo è qui sulla scena, motore di una storia che lo vorrebbe vincitore, superbamente interpretato da Sergio Romano con naturalezza e febbrile convinzione, oltre a un tocco di follia. Non va invece oltre una lineare interpretazione Michele Placido, dai riccioli bianchi sul volto abbronzato. Almeno nel finale ci saremmo aspettati un sussulto di verità. Dopo aver ucciso Desdemona (una Valentina Valsania di maniera), la scoperta dell’inganno ordito dall’ “onesto Iago” sembra lasciarlo indifferente, restando immobile seduto, per poi attaccare la tirata finale. Più detta che resa nella sua verità. Efficaci i tagli di luce caravaggeschi che illuminano, isolandoli, i volti dei due protagonisti: a evidenziare un duello verbale tra il bene e il male.