Il labirinto dei sogni e delle idee

Ad Aosta, fino a settembre, una ricchissima rassegna ripercorre la parabola artistica e umana di Giorgio De Chirico
Opera di Giorgio De Chirico

Ci sono artisti che non si finisce mai di conoscere. La complessità del loro mondo interiore – fantasia, intelletto e cuore – è tale che, a ogni riproposizione delle loro opere, sempre si scopre qualcosa di nuovo. Succede con Giorgio De Chirico, in una rassegna ad Aosta, aperta fino al 30 settembre.
 
Ci sono i celebri manichini, le piazze, le nature morte, le allucinazioni classiche, i ritorni di fiamma al figurativo, al paesaggio, il mito e l’irreale. Insomma, il viaggio lunghissimo che il “pictor optimus”, come amava definirsi, ha compiuto. Si potrebbe dire, parafrasando quanto Manzoni dice di Napoleone, che «tutto ei provò». Ma cosa resta di uno che ha sperimentato tutto?
 
 Nel caso di alcuni artisti, un ricordo neobarocco, un narcisismo virtuosistico che suscita ammirazione, ma poi decade col cambiare del gusto. Un’arte, insomma, che non ha durata, oltre la moda. Per De Chirico non è così. Qualunque sia il genere affrontato, con perizia tecnica consumata, rimane per chi osserva la possibilità di un incontro reale con lui. O meglio con le diverse fasi del suo viaggio interiore. Oltre la ricchezza cromatica, la capacità prospettica e disegnativa, l’astuzia anche di reinterpretare a suo modo il passato, sembra che di fronte a ogni sua tela egli voglia dirci cosa stia vivendo in quel momento. Con una perentorietà che lascia sgomenti.
 
De Chirico non è uomo del dialogo. Si impone e ti si impone, e basta. Tu devi solo ascoltare, o meglio annullarti perché egli possa parlare. Così la Matinée angoissante del 1912 diventa il suo slancio verso una vita che non può finire, espressa dallo scorcio ardito di un’architettura protesa verso un orizzonte boreale. Le Muse del ’27 non hanno occhi né bocca, perché la poesia esige di avere “altri occhi e altre bocche”, non umane, come la poesia dannunziana della “Pioggia nel pineto”. Dove la natura freme di palpiti sovrumani, come qui le Muse vibrano di una staticità che le riempie di una luce “altra” (le mani stese sul grembo, in pace).
 
E se la Bagnante in riva a un torrente (1950) ripropone un Rénoir o un Tiziano in pieno secolo ventesimo, di una sensualità carnosa ma non carnale, la Veduta di Venezia dello stesso anno ripensa a Canaletto, ma con la trepidazione di un artista anziano che sente la laguna quasi fra le sue braccia.
 
Suonano attimi di malinconia alta fino allo struggimento nel Trovatore del ’55, con quel cielo blu caldissimo che fa sembrare un gigante il manichino: ma è la musica, il canto, che rende grande, immenso, il sentimento. Stanno sciolti al vento sul mare i Cavalli del ’63, contemplando il modo classico perduto fra le onde. E poi lui, nel ’59, quasi lagrimoso nel volto imperfetto, non può che chiudere con Ettore e Andromaca del ’75: omaggio irreale del sogno di un mondo dove tutto è luce cristallina.
 
Perché, scorrendo le opere dechirichiane, ancora una volta, ma con intuizioni rinnovate, ci si trova con il cuore della sua poesia: l’amore per la luce che tutto trasfigura nell’eternità. Uomini, animali, cose. Insomma, il cosmo.
 
Aosta, Centro Saint Bénin. Fino al 30/9 (catalogo Silvana editoriale)

I più letti della settimana

Il sorriso di Chiara

Abbiamo a cuore la democrazia

Carlo Maria Viganò scismatico?

La filosofia dello sguardo

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons