Il labirinto brasiliano

La curva dei contagi da Covid-19 nel Paese è sempre più accentuata e, con essa, pare esserlo anche quella dell’involuzione autoritaria del suo presidente
Jair Bolsonaro (AP Photo/Eraldo Peres)

Trent’anni fa, Gabriel García Márquez pubblicava un romanzo dedicato agli ultimi sette mesi di vita di Simón Bolívar, Il generale nel suo labirinto. In quelle pagine poco propense alla speranza e alla vita, il celebre Gabo scandalizzò critici e storici mescolando fatti veridici con altri frutto della sua fantasia, mentre il suo personaggio restava preda dall’intricata realtà da lui stesso costruita.

Qualcosa del genere sta avvenendo in Brasile, dove la gestione del presidente Jair Bolsonaro affascina i suoi fedeli seguaci con sempre più frequenti strizzatine d’occhio all’autoritarismo, che lo allontana sempre più dagli standard minimi necessari a una democrazia per non trasformarsi in una “democratura”. Due terzi dell’opinione pubblica sono ormai avversi alla sua guida, ma i membri del terzo a lui legato lo osannano ogni volta nelle manifestazioni – convocate in barba alle precauzioni per evitare assembramenti e contagio –; Bolsonaro non ha pudore alcuno nell’invocare la sospensione del Parlamento e della Corta suprema. Viceversa, per il presidente, le manifestazioni di protesta contro la sua gestione sono atti di «terrorismo».

Il tutto mentre, nel Paese e all’estero, ha fatto il giro delle testate il video nel quale in piena riunione con i suoi ministri il presidente afferma senza mezzi termini – e con una caterva di parolacce – che non resterà con le mani in mano se la polizia federale investigherà famiglia ed amici. Bolsonaro ha preso le indagini per corruzione su uno dei suoi figli come un attacco personale e, di fronte al rifiuto del capo della polizia di inviargli informazioni sulle indagini, ha spedito a casa il discolo funzionario rimpiazzandolo con uno più obbediente. Nel video, il presidente ha chiosato ribadendo che se il ministro competente non era d’accordo doveva andarsene. Detto e fatto, poche ore dopo aveva sulla sua scrivania la rinuncia del ministro Sergio Moro, il più popolare dei suoi ministri, simbolo della lotta contro la corruzione politica.

Ma la questione emergente oggi non è solo quella dei labirinti democratici. In realtà, il tema si mescola con la gestione della pandemia. Ben due ministri della Sanità si sono succeduti tra aprile e maggio, nessuno dei due disposto ad affrontare la crisi del Covid-19 obbedendo ai criteri di Bolsonaro, contrario alla chiusura e convinto che la clorochina sia non solo il miglior rimedio – nonostante i dubbiosi risultati –, ma che questa faccia parte anche di una identità ideologica: «Quelli di destra – ha detto – usano la clorochina, quelli di sinistra la tubaina», cioè una bibita. Contrario alla chiusura delle attività produttive ed alle quarantene, la polemica con i governatori degli Stati ha minato le certezze nell’opinione pubblica, mentre i contagi lievitano salendo una curva ancora lontana dal suo picco. Stando ai ritmi registrati fino a venerdì scorso, in queste ore si raggiungeranno i 700 mila casi e circa 36 mila decessi.

Ma da sabato il presidente ha disposto di modificare i dati da fornire, che saranno solo quelli giornalieri, senza più il totale accumulato e senza consolidare i dati parziali regionali. Il bollettino, poi, sarà emesso dopo l’orario dei tg di massimo ascolto e quando i giornali avranno già chiuso in stampa le edizioni. Il presidente vuole dunque maneggiare a suo modo anche i numeri. Sapere è potere. Nel fine settimana, secondo i numeri ufficiali, i decessi da circa 1.500 al giorno si sono ridotti a 164, mentre i contagi giornalieri da circa 30 mila sono scesi a meno di 6 mila. Secondo il governo si stavano gonfiando i dati locali falsificando la visione d’insieme della realtà.

Ma non appare facile mettere a tacere tutta una società quando le camere mortuarie degli ospedali e le pompe funebri non sanno come smaltire tanti corpi o le terapie intensive sono sature. Bolsonaro sta tirando una corda che non è affatto certo che possa resistere senza maggiori ripercussioni. Resta il dilemma non solo dell’uscita del labirinto, ma anche di stabilire chi, in realtà, vi è finito dentro: il presidente convinto di seguire un mandato messianico di redenzione con una “salvezza” che viene dal mercato e dall’autoritarismo, magari spalleggiato dalle forze armate e, in parlamento, dai partiti disposti ad offrire voti in cambio di prebende; oppure un elettorato che dovrà affrontare questa feroce crisi sanitaria ed economica guidato da una leadership che non riesce a distinguere tra i propri interessi e il bene di tutto un Paese.

Pragmaticamente, il grande scrittore argentino Leopoldo Marechal, suggeriva che da un labirinto si esce solo dall’alto. In politica ciò significa che, quando una democrazia entra in crisi, la via d’uscita è sempre con una maggior dose di democrazia, non con una minore.

 

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons