Il grande silenzio di Philip Groning

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Roma, marzo. C’è un tepore primaverile nell’aria. Si riflette sul volto abbronzato e sereno di Philip, classe 1959, tedesco di Düsseldorf. Il suo ultimo film ha sbancato in Germania e si sta vendendo in tutto il mondo. 19 anni di attesa. Alla fine, si gira nella Grande Chartreuse. Perché un film del genere? Me lo chiedono in molti. Avevo iniziato a fare cinema, ma mi andavo accorgendo che era un lavoro da impazzire. Mai un momento di tranquillità, di ricerca, di incontro con quella che è la verità di quel determinato momento nella tua vita. Finché mi è venuta in mente l’immagine di un monaco nella sua cella: mi pareva una sorta di archetipo dell’intellettuale europeo. Ho pensato che mi sarebbe piaciuto vivere per un certo tempo in un monastero e girare allo stesso tempo un film. Lavorare su quello che sarebbe successo nel momento presente, senza delle idee precostituite: senza musica risonante, senza commenti, parole, informazioni. L’idea è nata in questo modo. Si potrebbe definire questo film come una specie di storia d’amore? Lo è, sotto certi aspetti. C’è molta amicizia, calore umano fra i monaci. Non si parlano, non si toccano, ma c’è un amore spirituale. Io mi sono trovato benissimo. I monaci fanno una vita molto equilibrata, esiste un’armonia bellissima in loro tra il fare e il non fare. Certo, soprattutto all’inizio, ho passato dei momenti di forte depressione. Noi infatti siamo abituati diversamente, dobbiamo avere sempre uno stimolo che però nasconde il vuoto in cui ci troviamo. Come è riuscito a superarlo? Una cosa è sapere che tu vivi in una Certosa per sempre e un’altra il fatto che ci stai per quattro mesi. Ho superato i l senso di vuoto talvolta scioccamente, pensando fosse indispensabile inviare delle email; più spesso, ricordandomi che avevo scelto io di vivere nella Certosa, di non uscire, di restare a filmare. Era perciò necessario aspettare finché sarebbe passato quel momento di disperazione per poi poter vedere qualcosa di nuovo, di diverso. Dopo momenti come quelli, sono nate alcune delle immagini più belle del film. È stato come un percorso: si entra nel vuoto, non lo si sopporta, ma poi la percezione nei confronti del mondo si apre in maniera del tutto nuova. Spero questo accada agli spettatori. Il film appare anche un viaggio verso la bellezza. Mi riferisco a certi interni che richiamano la pittura di Vermeer e van Dyck – autori che lei ama – e ai ritratti dei monaci. Li ho ritratti a gruppi di tre per volta, mi pareva una scelta evidente questa di riprendere i volti. È stata la prima cosa che ho fatto. All’inizio infatti non sapevo come giustificare la mia presenza nella Certosa. I monaci non avevano paura della cine- presa, io invece sì. Ero tentato di spiare la loro vita senza cercare il confronto con loro.Ma non potevo nascondermi, pensare che stavo recando disturbo: era la porta d’ingresso, quella, dovevo entrare. Nel film non ci sono parole, solo i canti liturgici. Ed un silenzio particolare. La condizione normale del mondo sarebbe il silenzio, ma il rumore che noi facciamo è così alto da pensare che sia la normalità. Le cose invece sono silenziose, non hanno voce, eppure parlano… Per questo motivo, non abbiamo usato la tecnica digitale: non si sarebbe avvertita la presenza delle cose, il vederle nella loro pienezza, sarebbero risultate leggermente sfocate. Avremmo perduto l’obiettivo del film. I monaci hanno pochissime cose: estremamente presenti, però. Col digitale, tutto ciò sarebbe andato perduto. Però qualche parola qua e là c’è rimasta. Avete ripreso un monaco che parla al suo gatto… È vero (sorride, ndr). Quando dovevo alla fine far vedere il film, ero molto nervoso, perché sapevo che i monaci avrebbero potuto chiedermi di tagliare delle scene. Invece, le hanno lasciate tutte, compresa quella del gatto. Si conoscono bene tra loro… Inoltre, conservano degli aspetti della vita dei bambini. Sono nella completa innocenza, perché non hanno preoccupazioni. Lavorano, pensano, sono fiduciosi che ogni vita è buona e andrà avanti. Qualcuno lo può etichettare come un film religioso, perché parla di monaci. Non è confessionale, di certo. Non è religioso in senso stretto. Soprattutto è una esperienza cinematografica, una meditazione cinematografica: apre la strada verso qualcuno, verso delle domande. In questo senso è religioso perché tu puoi incontrarti con i tuoi dubbi, le tue domande e forse trovare qualche risposta. Che venga da te, non dal film. Il film è lo spazio che si apre per rispondere a questo bisogno. Lascia libero lo spettatore, però un poco lo guida: è infatti uno spazio che io gli offro perché lui possa scoprire la sua stessa presenza, incontrarsi con essa. Un grande regalo, come ha detto la gente che l’ha visto in Germania: tre ore di tempo per ritrovare sé stessi. Infatti, è un film sul tempo: il tempo buono, che fa bene all’essere umano. Il grande silenzio sta avendo molto successo. È stato accolto con entusiasmo ai festival di Rotterdam e Toronto, ha vinto il Gran Premio della giuria al Sundance, e il premio della critica alla recente Berlinale… Come se lo spiega? All’inizio la gente ha paura delle tre ore di film. Ma, una volta visto, ne fa pubblicità col semplice passaparola. Credo ci sia una enorme bisogno di ricerca interiore, di verità artistica: che questi due elementi rientrino nella nostra cultura. La quale per alcuni secoli è stata basata sull’idea del lavoro, che però non è il valore su cui è nata la cultura europea. La gente vede il film, anche per cinque-sei volte, scopre altri valori ed esce felice. Come lo sono i monaci che, in fondo, lavorano solo per il necessario e non oltre. I monaci in quel luogo si liberano dalla paura. Ognuno ha la fiducia che Dio gli provvederà. Come si ritrova dopo un lavoro del genere? Questo è un film unico. Perciò ho molto sofferto durante il montaggio: non avevo nessun orientamento. Però mi ha lasciato una convinzione: credo, molto più di prima, che la vita procede verso una direzione dove tutto ha un senso.

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