Il grande giorno
10 settembre 2012
Ebbene sì, ora ho la fede al dito (da ieri, per la precisione). Giornata memorabile davvero.
Alle sette meno un quarto è arrivata mia mamma a svegliarmi, «tanto mica stavi dormendo, vero?». Non ho avuto il coraggio di dirle che dopo la birra bevuta per lo sconforto, alla quale in realtà ne sono seguite altre due, stavo ronfando come un ghiro.
Alle sette e mezza ero pronta per andare dalla parrucchiera, che notando l'alito ancora alcolico è rimasta piuttosto perplessa. Comunque ha fatto il suo lavoro in silenzio e con l'usuale concentrazione, che mi sono costate duecento euro tondi tondi (credo di averle comprato il silenzio, in effetti).
A casa mi aspettava l'estetista, che ha dovuto truccarmi in cucina accanto ai fornelli perché il bagno era occupato nell'ordine da mia mamma, da mio fratello (che quando ci si mette è peggio di una donna), e da mia cugina che, essendo in sette in famiglia, è venuta a chiedere asilo politico. La sposa ero io, ma chissà perché ero l'ultima della lista.
Poco male, alle nove e mezzo ero pronta, grazie all'efficienza di mia zia che mi ha vestita in sette minuti netti, nonostante la serie di bottoncini, lacci e laccetti del corpetto che mi hanno sempre fatto pensare alla famosa scena di Rossella O'Hara in Via col vento.
Il difficile è stato poi salire in macchina, con abito, strascico e velo: non solo hanno dovuto aiutarmi in tre, ma una volta arrivata in chiesa ero sostanzialmente incastrata nel sedile, e mio papà ha dovuto tirarmi fuori di forza con l'aiuto di mio cugino.
Traballante sui tacchi ho salito le scale della chiesa al braccio di papà, che mi ha consegnata a Davide (che per fortuna non presentava segni di postumi da sbronza); gli ho dovuto spiegare, lì davanti a tutti, che il velo della sposa va alzato. Che figura. Niente in confronto a quando il sacerdote (da poco ordinato) ha esordito con «Questo è il mio primo matrimonio», e Davide gli ha risposto a voce alta «Anche il mio».
Il resto della cerimonia per fortuna è filato liscio; l'unico problema è stato alla fine ricevere le congratulazioni di tutti i parenti, parenti di parenti a amici di parenti di parenti, che ho dovuto bellamente fingere di conoscere anche se non li vedevo dalla tenera età di due anni e otto mesi.
Da quel punto in poi, è stata tutta discesa: la festa è stata un vero spasso, la ditta di catering ha fatto bene il suo lavoro, e anche gli amici con scherzi e intrattenimenti. Davvero quello che avremmo sempre voluto: una vera festa collettiva, e pazienza se non c'erano le costicine sul fuoco come Davide avrebbe voluto.
Alle sette eravamo già così stanchi che ce ne siamo andati all'hotel extra lusso dove le mie amiche ci avevano regalato il pernottamento. Siamo arrivati lì ancora vestiti da nozze, senza portarci nulla se non una t-shirt e pantaloncini di ricambio: stamattina credo più di qualcuno degli aristocratici ospiti dell'hotel abbia riso vedendo una ragazza con i capelli da maga magò (non me li ero potuti lavare dopo aver sciolto l'acconciatura….) e un vestito da sposa in braccio scendere dalle camere, ma poco male.
A quel punto, stremata dalle fatiche dei preparativi, mi sono detta «finalmente è tutto finito»; e invece no, mi sa tanto che è solo l'inizio…