Il grande dialogo
Asia, culla di grandi religioni, attrattiva per molti giovani dell’Occidente alla ricerca magari confusa di valori spirituali. Sono religioni che hanno lasciato una impronta profonda in vaste popolazioni. Sono insegnamenti di vita personale e sociale di tale saggezza, che ancora oggi, dopo e nonostante il rullo compressore delle guardie rosse negli anni caldi della Cina di Mao, riaffiorano in quell’immenso Paese col fascino della loro consistenza, che travalica le fluttuazioni storiche. Si può limitarsi a considerare tutto questo patrimonio di valori come un residuo culturale passato? O non contengono in sé, in qualche modo, un’impronta divina, brani di Verità da saper rispettare, riconoscere e accogliere? Sono, è stato detto al Sinodo dei vescovi riuniti a Roma, tesori spirituali . E la Chiesa d’oggi deve saper rispondere all’apertura espressa venti anni fa dal Concilio nei loro riguardi. (…) Si tratta di saper cogliere quelle impronte divine, di saper capire e di proporre il messaggio di salvezza del Vangelo, fatto per tutte le genti, tenendo conto di quelle realtà. È chiaro che un tipo di missione, di impronta fortemente occidentale a cui in passato talvolta ci si è limitati, non può avere tutta la sua efficacia, perché non rispetta abbastanza il lavoro di Dio precedente in questo sterminato spazio umano. È quanto aveva già intuito padre Ricci, quattro secoli fa. Il problema del cristianesimo in Asia suppone una inculturazione e un dialogo. Anzi si può ben dire che il dialogo è la strada futura dell’evangelizzazione. Già uno sforzo di inculturazione, del sapersi integrare nel contesto di culture che non sono quella occidentale, si è fatto sentire nei vent’anni dal Concilio, specialmente in campo liturgico, in forme liturgiche integrate, oltre che nell’uso della lingua locale, in conformità col Magistero della Chiesa. (…) Si tratta innanzitutto di cogliere quali siano i punti d’incontro, quelli in cui, sotto diverse forme, si esprimono le medesime esigenze spirituali. Vi sono ad esempio dottrine, come quella buddhista, che – sia nel suo filone religioso, sia in quello filosofico, di saggezza umana – conducono l’uomo a cogliere il significato altissimo dell’annullamento di sé, alla ricerca dell’Assoluto. Per i buddhisti, il simbolo della via da seguire è la candela spenta, il culmine cioè dell’annientamento, oltre il quale si scopre veramente sé stessi. Come può accendersi la scintilla dell’accoglienza al messaggio della salvezza in chi già ha raggiunto un tale grado di elevatezza spirituale? Pensiamo che il primo punto d’incontro sta piuttosto nella esperienza culmine di Cristo: nel suo annichilimento totale, per amore, sulla croce, quando prova lo spogliamento di tutto, persino di Dio. Lì è il ciak, lì è la luce accessibile anche ai nostri fratelli che seguono altre religioni. E lì è anche la risposta per tutti: proprio in quell’Amore sta il più che Gesù ha portato. S’è annichilito per amore, è stato amore, ha messo in moto, in quel momento, l’energia esplosiva dell’amore divino e l’ha posta in circolazione fra gli uomini. Ha fatto da punto di collegamento fra il divino e l’umano. Questo è un discorso in piena armonia con la ricerca spirituale sottile e profondissima dei nostri fratelli dell’Asia. Gesù in quel momento culmine è la via; non qualcosa di meno. E in lui, dopo l’annichilimento, c’è la resurrezione: la candela accesa. E questo ci dice l’umiltà con cui accostarsi alle culture dell’Asia: troppo noi in Occidente abbiamo perduto questa dimensione dello spirito, e questa dimensione dell’amore, che Gesù ci ha mostrato, ha testimoniato e portato. E finché non sappiamo essere quella realtà, non possiamo trovare con quei fratelli dell’Asia un punto di contatto autentico e per loro soddisfacente.