Il grande amore di Colombara

Dialogo con uno dei più importanti bassi italiani, noto ed apprezzato a livello mondiale. Ricordi, progetti e considerazioni di un grande artista
Carlo Colombara foto di Fidelio Artists

Ci sono delle persone così naturalmente cordiali che, standoci insieme, sembra di conoscersi da sempre. Hanno il dono dell’immediata simpatia e di quella carica umana che fa star bene. Carlo Colombara, uno dei grandi bassi italiani a livello mondiale, è una di queste. Nessuna affettazione, nessuna esibizione dei propri trionfi. Ci troviamo seduti sulle poltrone rosse  della Sala Santa Cecilia al Parco della Musica di Roma. Due ore di prove con l’orchestra e il coro dell’Accademia diretti da Antonio Pappano, per il Requiem di Verdi, in partenza (la settimana scorsa, ndr) per la trionfale tournée inglese a Londra e a Birmingham.

Si parla di almeno cento Messe da Requiem verdiane che lei ha cantato.
«Beh, in verità sono 130. L’ho cantato e inciso moltissime volte. Spero che così mi guadagnerò il paradiso (ride), se dipendesse da questo… Ho avuto la fortuna di essere diretto da personaggi come Riccardo Muti, Carlo Maria Giulini, Lorin Maazel, Zubin Metha, Georg Solti e molti altri. È stato Solti a propormi a Riccardo Muti: mi fece una audizione – ero molto giovane – e cantai con lui per dodici anni alla Scala, a prime importanti come il Macbteh e i Vespri siciliani di Verdi nell’89 in seconda compagnia. Ogni anno avevo  un’opera o con lui o con i maestri Gavazzeni e Solti. Con Muti non ci sono stati mai problemi, c’è stata una vera stima reciproca».

Molti definiscono la sua una tipica voce verdiana. Ma cosa vuol dire?
«Credo si tratti di una voce che ha una rotondità, una pienezza, una capacità di legato ed una forza che supera anche il suono orchestrale, perchè l’orchestrazione di Verdi non prevede voci piccole, ma allo stesso tempo le vuole rotonde come lo è il suono della sua musica, soprattutto nelle opere mature, diciamo dal Rigoletto in poi. In definitiva, il cantante verdiano dovrebbe essere un belcantista con una voce grande. Io amo Verdi, sono emiliano come lui (è nato a Bologna, ndr), è il nostro più grande datore di lavoro, non sono i teatri! Verdi è il compositore italiano – lasciamo stare i russi – che ha scritto le parti più estese per i bassi, cioè per voci come la mia. Fra tutti i ruoli preferisco quello di Filippo II nel Don Carlo, dove c’è ogni sfumatura vocale della interpretazione. Perciò mi ritengo fortunato non solo perché faccio il mestiere che desidero, ma canto le opere che voglio, ed è molto importante. Naturalmente non ho cantato solo Verdi, ma anche molto di Donizetti come Lucia, Linda, Anna Bolena e anche Don Pasquale: un ruolo buffo che avevo voglia di interpretare perchè nelle altre opere mi muoiono sempre tutti… o muoio io, ma raramente: di solito, li ammazzo!!(ride)».

So che lei ama molto il teatro.
«Come la lirica, è una passione che ho avuto fin da ragazzo. Ero abbonato a tutte le stagioni dei teatri di Bologna. Ho visto Gassman, Salvo Randone, i grandi dell’epoca. Mi piace la letteratura anche – leggo molto -, il cinema, i viaggi. E anche la cucina (sorride, ndr), da buon bolognese, tant’ è vero che quando torno dai miei giri nel mondo, mi rifaccio mettendomi ai fornelli. Ma in verità io amo tutto ciò che è bello».

Fin da piccolo, quindi, ha la passione per la lirica…
«Travolgente. I miei erano stupiti e allora io, fin da ragazzo – in estate i teatri erano chiusi, non c’erano i cd  – portavo i miei genitori all’Arena di Verona: ascoltavo così anche tre volte una Aida, perchè andavo una volta col papà, un’altra con la mamma e poi con la nonna! Ma forse la passione deriva da un mio avo, Riccardo Stracciari, un grande cantante, cugino di mia nonna,  per cui ce l’ho nel sangue! A 15 anni ho iniziato a studiare: sette anni, poi il debutto all’Aslico di Milano nel Werther in un piccolo ruolo, poi nella Linda di Chamounix. In seguito sono stato all’Arena di Verona e poi nell’88 – un anno dopo il debutto – a Tokyo nel Macbeth e in seguito alla Scala dove nel ’98, diretto da Muti, feci lo spettacolo inaugurale nei Vespri siciliani».

A 23 anni già alla Scala. Un sogno per molti cantanti.
«Ero davvero molto giovane e incosciente, ma sono partito! Devo confessare di avere avuto da subito una carriera su un livello molto alto. In genere si fa una tappa dopo l’altra, in provincia, io sono partito in alto e quindi lo sforzo è stato quello di mantenermi sempre su quel piano».

Una fatica. Qualche rimpianto?
«No, io amo ancora follemente la lirica, il mio lavoro. Ho ancora paura, sul serio – una paura consapevole -, quando sono sul palcoscenico. Dopo, no. Se lo spettacolo è andato bene e c’è stata la risposta del pubblico, ho una grande gioia. Se no, spero che in seguito andrà meglio. Ma conosco dei colleghi che, dopo alcuni anni di lavoro, si lasciano andare. Io invece continuo a studiare, cercando di perfezionarmi, a 49 anni, non transigo con me stesso. La lirica mi appassiona anche oggi: ho l’anima del loggionista!».

Ha lavorato con grandi interpreti come Alfredo Kraus e Luciano Pavarotti.
«Con Luciano ho cantato nell’ultimo suo Requiem di Verdi al San Carlo di Napoli. Gli ero vicino. Aveva una voce d’oro, vertiginosa, già dalla prima nota si sentiva che il timbro era unico, quello di Pavarotti, e sino alla fine della carriera. Di voci così ne nascono davvero poche.

Ho cantato poi diretto da personalità come Carlo Maria Giulini a Londra e a Barcellona – un monumento, rarissime parole, raccolto, con lui feci il Requiem verdiano per la prima volta -, con maestri della tradizione come Giuseppe Patanè e Nello Santi. Purtroppo non ho mai lavorato con Claudio Abbado. Ho assistito a tanti concerti suoi, ma ho il rimpianto di non aver mai cantato con la sua direzione.

Ora sto lavorando con Antonio Pappano. Quando l’ho conosciuto, negli anni  Novanta, era quasi al debutto, come me. Ci incontrammo per un Requiem, poi facemmo insieme Aida a Londra al Covent Garden. È un grande direttore: si vede in lui la volontà di far sempre meglio, e il risultato si sente. Coro e orchestra qui a Santa Cecilia sono ad un livello incredibile».

Ma, ora, da noi ci sono ancora belle voci e direttori di valore?
«Purtroppo i migliori vanno all’estero. Penso a direttori come Marco Armiliato, Fabio Luisi, Daniele Callegari, che hanno un grande successo. In Italia cantano molto i russi, ma i nostri non vanno da loro, non c’è lo scambio, una cosa davvero strana. Dovremmo, noi italiani, essere meno esterofili, meno complessati nei confronti dell’estero, più decisi in quello che valiamo. In fondo, abbiamo dato un patrimonio culturale immenso al mondo, sarebbe ora di cominciare a crederci anche noi e di esserne orgogliosi».

Purtroppo, la musica è sottovalutata in Italia…
«Mi spiace quando vedo pochi ragazzi interessati alla lirica, a differenza dell’estero, anche perché sono fin troppo occupati. Io tengo molti masterclass e mi accorgo come non ci sia educazione musicale. Credo che più che i politici dovrebbero pensarci gli insegnanti, la scuola a non svalutare un patrimonio di bellezza così vasto e importante che nel mondo ci stanno rubando: fanno le copie, ma non sono originali. È un dovere morale. Io penso che un uomo senza una cultura musicale non sia completo. Spero che in futuro le nuove generazioni lo capiranno».

Lei si considera un uomo felice?
«Beh, a questo punto della mia vita posso dire di aver avuto tutto e sono sereno, contento. Desideravo cantare, cantare Verdi con grandi direttori e l’ho avuto. Spero vada avanti così. Ricordo che Pavarotti, quando ha saputo di essere ammalato diceva:  “Per quello che ho avuto, potrei andarmene soddisfatto anche adesso”. Io spero di campare ancora cinquant’anni – (ride, ndr) -, ma potrei dire la stessa cosa. Faccio un lavoro che mi entusiasma, a me piace viaggiare e vado in giro per il mondo, ho un rapporto molto buono con il mio pubblico: sono passato indenne dodici anni alla Scala!. La vita mi ha dato davvero molto sino a questo momento».

Un’ultima domanda. Che ne pensa del classico contemporaneo?
«Ho cantato una volta nell’Edipo Re di Stravinsky, una grande fatica perchè non è adatto alla mia voce. Una ventina di giorni  fa a Barcellona ho cantato in un’opera scritta appositamente da Kolonovitz – El Juez (Il Giudice) – per Josè Carreras, molto bella per la sua tessitura attuale: un grande successo e la porteremo in tournée con lui. Di tutti i grandi che ho conosciuto, anche come collega, è il più semplice, è nata una bella amicizia. Tornando al classico contemporaneo – che mi piace poco – penso che quando di un brano si devono dare troppe spiegazioni, più che arte sia matematica. Ed io con la matematica ho sempre avuto un rapporto difficile!(ride, ndr). La vera arte, io penso, è immediata, diretta».

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