Il governo dimezza i fondi per i piccoli sopravvissuti del mare

Le rette giornaliere per i centri di accoglienza che li ospitano passano da 76-100 euro a 45. Varata, nel silenzio, la riforma del sistema dell’accoglienza dei minori non accompagnati: oltre al taglio dei fondi, restano lacune e problemi difficili da risolvere
Piccoli immigrati sbarcati in Italia

L’estate italiana è ricca di problemi, ma evidentemente i nostri governanti ritengono opportuno aggiungerne altri al calderone che li contiene e che già è in ebollizione da tempo. Così a metà luglio la Conferenza Stato – Regioni, senza troppa pubblicità, ha prodotto un documento di riforma del sistema dell’accoglienza dei minori non accompagnati che stanno arrivando in Italia, sempre più numerosi e sempre più piccoli (da settimane i nostri centri cominciano ad accogliere ragazzini tra i 10 e i 14 anni che affrontano da soli la traversata del Canale di Sicilia).

Il documento contiene delle dichiarazioni di intenti dirette a trasferire integralmente al Servizio Centrale la gestione dell’accoglienza dei minori stranieri.

Solo nelle ultime 48 ore, grazie a tre scarne circolari – inviate velocemente via email ai Comuni già coinvolti nell’accoglienza – si è capita la portata dell’innovazione che darà molti grattacapi e lascerà tutti insoddisfatti.

Il Servizio Centrale, presso il ministero dell’Interno, sino a due giorni fa si occupava solamente delle persone che presentano richiesta di asilo politico (minorenni o adulti che fossero) con il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR). Da due oggi è stato investito anche della responsabilità di attivare e gestire il percorso per assicurare l’inserimento di tutti i minori – richiedenti asilo e non – nelle comunità che daranno disponibilità all’accoglienza previa accettazione di alcune condizioni. I Centri di prima accoglienza diventeranno i luoghi dell’identificazione dei ragazzi prima dello smistamento in comunità, che dovrebbe avvenire in modo molto veloce.

Con un certo sforzo di buona volontà gli addetti ai lavori possono capire il perché di questa riforma (garantire il controllo costante dei minori che sempre più finiscono nelle mani sbagliate), ma già sanno che la realizzazione sarà impossibile.

In primo luogo nessuno nutre grande fiducia nei centri di prima accoglienza (che tradotti in una lingua comprensibile sono delle scuole o dei locali riaperti nei mesi scorsi in cui le persone vengono “collocate” a decine in attesa di trasferimento. Qui ricevono un posto in dormitorio, i pasti, alcuni capi di biancheria e qualcosa per lavarsi, ma non c’è informazione legale, non c’è un corso base di italiano, l’assistenza sanitaria viene data in caso di palese necessità, non vi sono controlli su chi entra ed esce). Quindi ci chiediamo come potrà realizzarsi in questi luoghi l’attività di identificazione (a carico delle forze dell'ordine) e orientamento legale (a carico del centro).

Ma soprattutto sappiamo che la nuova retta (45 euro al giorno pro capite) imposta alle comunità in cui i minori dovrebbero essere inseriti nell’arco di poche ore, non sarà sufficiente a garantire la sopravvivenza della comunità stessa, che deve obbligatoriamente fornire dei servizi e quindi garantire la presenza di personale con diverse competenze professionali. Si tratta di un importo quasi dimezzato rispetto a quello in vigore sino a due giorni fa (che si aggirava tra i 76 e i 100 euro circa in base a diverse componenti).

Si direbbe che tutta la riforma – letteralmente imposta in poche ore con tre circolari – sia stata fatta al solo fine di ridurre la spesa dell’accoglienza e a complicare un percorso che ha grosse lacune, ma che questa modifica non colma.

Il fenomeno migratorio è strutturale, non è emergenza. Per l’Italia rappresenta una grossa opportunità sotto molti profili, a iniziare da quello lavorativo, inutile negarlo.

Avremmo preferito una riforma inserita a piccoli passi, ma fondata su valutazioni più approfondite e più rispettose di tutti gli attori dei percorsi di accoglienza.

Invece registriamo, per l’ennesima volta, l’incapacità dei governanti di guardare e comprendere i nodi del problema oltre il dato meramente patrimoniale. Queste riforme non sono indice di democrazia né di buon governo. Non è questa l’Italia che vogliamo.

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