Il giubileo della misericordia e l’ossessione della piazza
Sorprende che all’inizio dell’anno giubilare il primo gesto di molti vescovi e cristiani del nostro Paese non sia la penitenza e la conversione, ma il desiderio della piazza. Quasi che la piazza possa sostituire l’annuncio, che ha la sua sede propria lungo la via della croce, là dove incontriamo tante famiglie di poveri e di sofferenti, tante ragazze di strada e tanti migranti, tanti disabili e tanti abbandonati. Potremmo dire i segni del Messia che viene.
In realtà, quando i cristiani sono andati in piazza (ci ricordiamo il family day di nove anni fa) hanno mostrato una grande apparente forza, ma hanno perso, perché hanno sostituito al vangelo l’attrazione per il potere. Dunque innanzi tutto dobbiamo chiedere perdono, in ginocchio, per una stagione nella quale al vangelo sono stati sostituiti i “principi non negoziabili”, con risultati drammatici non solo per la comunità ecclesiale, ma per l’intera società italiana. La crisi che stiamo attraversando è figlia di quella stagione. Le famiglie e le loro ferite sono state usate da una Chiesa distratta dal vangelo e attratta dalla politica.
Questa è stata la vera sconfitta dei cristiani (vescovi, preti, parrocchie, movimenti e associazioni, cristiani comuni). Abbiamo preferito alla misericordia il razionalismo delle parole astratte. Abbiamo preferito stare nei palazzi della politica, piuttosto che lungo le strade del dolore, fino alla via crucis della nostra storia.
Papa Francesco, con il discorso alla Chiesa italiana, e con l’apertura del giubileo, ha chiesto ai cristiani del nostro Paese, di rendere attuale la forza spirituale del concilio, che ci chiama tutti, (vescovi, preti e cristiani comuni), a vivere la parola della misericordia, che genera la sapienza della prassi, la lettura dei segno dei tempi, una carità condivisa e senza limiti, e infine una coscienza formata dalla verità crocifissa.
Così scrive papa Francesco nella Evangelii gaudium: «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita, sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti».
Nel giorno del Family day, nove anni fa, a Stoccarda Romano Prodi, ancora presidente del consiglio, al convegno dei movimenti cristiani europei diceva con grande forza: «Una politica pubblica per le famiglie non deve dividere, ma unire. Non si può spezzare la società in nome della famiglia: la grande famiglia dell’Europa ha bisogno di famiglie che generino la cultura della comunione e della speranza, che sappiano ospitare la diversità, che siano feconde perché capaci di consegnare ai figli il seme del futuro e le cose belle del domani. Questo domanda politiche coraggiose senza le quali il tessuto profondo dell’Europa rischia di perdersi. Non facciamo della famiglia una declamazione, ma una politica che sappia costruire nuovi e più solidi rapporti umani».
Allora Prodi fu sconfitto, ma le sue parole non hanno perso valore. Ancora oggi valgono, pur in un contesto confuso e astuto, in cui ognuno cerca il proprio interesse politico e la propria rivincita.
I cristiani corrono un rischio in più: il rischio del Circo Massimo, dunque il rischio del censimento, del numero e della conta. Riattualizzare il family day è voltarsi indietro, come la moglie di Lot, guardare a un modello che ha già fallito nel passato, che pietrifica e uccide oggi sapienza e cultura.
Il giubileo della misericordia ci indica un altro orizzonte e un’altra prospettiva: avere un cuore povero e per questo aperto ai miseri. Questo porta, dice il papa, al dialogo, che è ascolto e incontro dell’altro e non negozio, che è «cercare di ricavare la propria fetta della torta comune».
Dunque una chiesa con volto di mamma, che si piega sui suoi figli più sofferenti. Questa non è la retorica della politica, ma la nostra fede, che i cristiani, tutti i cristiani sono chiamati a testimoniare da disarmati, senza esibire forza, ma vivendo e annunciando la debolezza di Dio.
Rimane la tentazione pelagiana di vescovi e di cristiani che cercano piccoli vantaggi personali, che papa Francesco così descrive: «(la tentazione pelagiana) spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata. E lo fa con l’apparenza di un bene. Il pelagianesimo ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette, perché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza e di normatività. La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso. In questo trova la sua forza, non nella leggerezza del soffio dello Spirito. Davanti ai mali e ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate, che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative».
Il cristianesimo politico è definitivamente al tramonto. Quello che leggiamo sui giornali è semplicemente un ritorno al passato, che non ha futuro. I cristiani non si facciano attrarre dalla ossessione della piazza, ma vivano la penitenza e la conversione della politica, la gioia del giubileo, che diventa accoglienza e consegna dei feriti e dei provati dalla storia.
Essi imparino dalle famiglie di chi è segnato nel corpo, nel cuore e nella vita. A partire da essi si sappiano trovare soluzioni originali e feconde sul piano legislativo, in modo da rendere migliore e più solidale la società italiana, unendo il Paese e non frantumandolo in una polemica di scontro e di conflitto.