Il giovane Kubrick

A Reggio Emilia, una mostra racconta i primi passi del grande regista mossi attraverso la fotografia
kubrick

Geniale lo era fino da bambino, quando a scuola era un disastro, ma leggeva e scriveva meglio di tutti i suoi compagni. Non aveva stimoli, semplicemente. Così Stanley non si applicava. Il padre, ebreo austriaco emigrato a New York, lo capì: gli aprì la sua biblioteca, iniziandolo all’amore per la letteratura, gli insegnò a giocare a scacchi – come faranno diversi personaggi nei suoi film –, gli diede una piccola Leika, e la macchina fotografica fu in un certo senso l’apprendistato del ragazzo per il cinema, dal 1945 al 1950. Per decenni le foto rimasero nascoste, finché recentemente sono state ritrovate dentro uno scatolone impolverato. Ed ora figurano, in parte, nella rassegna che si sta concludendo il 24 luglio a Reggio Emilia, a Palazzo Magnani.

 

Diciamolo subito. Questa è una mostra di cinema, più che di fotografia. Il motivo è semplice. Si tratta di racconti, di “storie”, narrate con la macchina fotografica usata come una cinepresa, perché le figure sono pensate già “in movimento” e bloccate un istante, come dalla moviola durante il montaggio di un film. Ancora qualche anno e a 30 anni Stanley inizierà la sua geniale carriera orientata al Sublime. Questo è infatti il concetto che sta sotto alla sua opera, quindi anche ai suoi primi lavori. Evocare una visione di “un’altra cosa”, trovare ciò che si nasconde “sotto la soglia” – sub limen, appunto – penetrarvi e raccontarlo. Kubrick ha sempre fatto questo: non è poco per uno dei “mistici laici” della cinepresa del ventesimo secolo.

 

Cosa racconta il regista in queste brevi storie? Sono dei mondi. C’è il Portogallo, colto non nell’approccio turistico di chiese e palazzi, ma di gente: vecchie, bambine, pescatori, un ragazzino già adulto, per culminare nella barca, sola e diritta, puntata verso il cielo; c’è l’anima portoghese, sobria, vissuta, mistica in queste immagini.

Poi Stanley racconta del ragazzino lentigginoso, che fa il lustrascarpe dopo la scuola. Con pose da adulto, ma curioso davanti al cinematografo, sportivo con gli amici con cui gareggia al pugilato, chinato sui compiti di scuola…Una infanzia non triste, ma impegnata. Kubrick, come farà in molti film, usa la luce piena per catturare i volti, gli occhi soprattutto. Quelli del ragazzino sono di una morbidezza serena, abituata al sacrificio.

A Stanley piace il circo. Non proprio gli spettacoli, ma cosa c’è dietro. La bambina bionda col piccolo leopardo in braccio, quasi a cullarlo; giraffe tigri ed elefanti con o senza i domatori, il riso di un pagliaccio in disparte.

E infine c’è l’America colta della Columbia University, file di studenti in biblioteca, ricercatori occhialuti e un bacio d’amore scambiato in chissà quale angolo. Nascosto a tutti, fuorché a Stanley che lo carica di luminosità, perché l’amore va mostrato. E l’America degli attori, nel caso Montgomery Clift, un’anima irrequieta, che si mostra per quello che non è: un padre di famiglia felice, un ragazzo disinibito, un artista che guarda lontano. Kubrick, come farà nel suo ultimo film con Nicole Kidman e Tom Cruise, vede al di là dell’apparenza attoriale, del “personaggio”. Nella mestizia dell’uomo si cela l’insicurezza, che Stanley racconta per poche immagini: messe insieme, raccontano una vita.

 

Questa è infatti la bellezza della rassegna emiliana e dello specifico di Kubrick: servirsi di qualunque mezzo gli fosse congeniale, da ragazzo la macchina fotografica, da adulto la cinepresa, per dire l’uomo. Ossia, la sua visione di ciò che sta “sotto il velame” dell’apparenza, per superarlo con la luce e l’ombra; e renderlo non solo immagine, ma simbolo del “Sublime”.

 

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